REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE DEI CONTI

SEZIONE GIURISDIZIONALE PER LA REGIONE CAMPANIA

composta dai seguenti magistrati:

dott. Enrico            GUSTAPANE            Presidente

dott. Federico        LUPONE                    Consigliere

dott. Rossella         CASSANETI              Primo Referendario relatore

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di responsabilità, iscritto al n° 58025 del registro di Segreteria, instaurato a istanza della Procura Regionale della Corte dei Conti per la Regione Campania nei confronti del signor Antonio ESTI, nato a Napoli il 20.09.1942 e residente a Bologna in via San Petronio Vecchio n. 37, rappresentato e difeso, giusta mandato a margine della comparsa di costituzione e risposta depositata in Segreteria il 10.04.2009, dagli avvocati Nicola Mazzacuva e Francesco Cardile ed elettivamente domiciliato unitamente ad essi presso lo studio del primo in Bologna alla via C. D’Azeglio n. 31.

VISTO l’atto di citazione della Procura Regionale depositato presso questa Sezione Giurisdizionale il 26.03.2008;

VISTA la memoria di costituzione depositata presso la Segreteria di questa Sezione Giurisdizionale il 10.04.2009 dalla difesa del sig. Antonio ESTI;

VISTI gli atti di giudizio;

CHIAMATA la causa nella pubblica udienza del giorno 30 aprile 2009, con l’assistenza del segretario dr. Francesca Cerino, sentiti il relatore primo referendario Rossella Cassaneti, l'avvocato Francesco Cardile ed il rappresentante del pubblico ministero in persona del Vice Procuratore Generale dr. Patrizia Coppola Bottazzi;

Ritenuto in

FATTO

Con atto di citazione depositato presso la Segreteria di questa Sezione in data 26.03.2008 la Procura Regionale ha evocato in giudizio il signor Antonio ESTI, per sentirlo condannare al pagamento, in favore dell’Amministrazione della Giustizia, della somma complessivamente determinata in euro 200.000, oltre interessi legali e spese di giustizia, per il danno non patrimoniale all’immagine della medesima Amministrazione provocato dal convenuto, all’epoca dei fatti contestati giudice in servizio presso il Tribunale di Napoli e poi alla Corte di Appello di Bologna, per aver promesso, in cambio di svariati benefici (danaro, un viaggio ed un orologio di pregio) il suo intervento e la sua mediazione in processi, anche non direttamente da lui trattati, a carico di esponenti del sodalizio camorristico denominato “Nuova Famiglia”,  facente capo al boss Carmine Alfieri ed alla famiglia di Pasquale Galasso.

Per tali fatti illeciti, consistiti in corruzione in atti giudiziari, il dr. ESTI – espone la Procura nell’atto introduttivo del giudizio - ha ricevuto condanna con la sentenza n. 7598/05 del 14.11.2005 della I Sezione penale della Corte d’Appello di Roma, pronunciata a seguito di rinvio della Corte di cassazione (sentenza del 04.11.2003), stabilito in definizione del ricorso proposto avverso la sentenza del Tribunale di Salerno n. 2900/00 del 19.07.2000 (dapprima impugnata innanzi alla Corte di Appello di Salerno, la cui decisione n. 1229/2002 del 29.11.2002, di assoluzione del dr. ESTI dai fatti delittuosi contestatigli, è stata cassata con rinvio dalla Suprema Corte in con la sentenza del 04.11.2003).

La Procura ha evidenziato, in particolare, che pur se la Corte di Cassazione - I Sezione Penale, con sentenza n. 12903/07, ha annullato con rinvio ad altra Sezione della stessa Corte di Appello di Roma anche la sentenza n. 7598/05 del 14.11.2005, riscontrandovi dei vizi logico-argomentativi, a rilevare ai fini del presente giudizio di responsabilità amministrativo-contabile è l’analisi del quadro già chiaramente delineato dei rapporti con la camorra dei giudici Antonio ESTI ed Armando Cono Lancuba (coinvolto nel medesimo procedimento penale e deceduto in data 11.01.2001, cioè prima che si pervenisse ad un provvedimento giudiziario definitivo nei suoi confronti, da cui l’estinzione del procedimento pronunciata riguardo alla posizione dello stesso Lancuba con sentenza predibattimentale n. 636/03 del 04.07.2003 dalla Corte di Appello di Salerno); tali rapporti hanno provocato allo Stato nel suo complesso – ad avviso della Procura attrice – un gravissimo danno non patrimoniale, concretatosi, nella fattispecie, in nocumento all’immagine, alla reputazione ed alla identità dell’Amministrazione statale, danno-evento da riconoscere come sussistente e risarcibile anche a prescindere dalla verificazione di danni patrimoniali. Invero – ha sottolineato ancora il requirente nell’atto introduttivo del giudizio, in cui ha citato giurisprudenza della S.C.  e della Corte Costituzionale – “anche un comportamento reiterato che configura una rappresentazione non ancora ufficialmente acclarata con un giudicato penale, ma in tutto corrispondente alla fattispecie dolosa di reato” può produrre un danno non patrimoniale all’immagine della P.A.”, non essendo quindi necessario, al fine di riconoscerne la sussistenza, l’accertamento o addirittura la prospettazione astratta di un illecito penale per contestare il danno morale patito dallo Stato.

Per la vicenda oggetto del giudizio la Procura Regionale ha provveduto a notificare invito a controdedurre in data 25.10.2007 agli eredi del dr. Lancuba ed in data 31.10.2007 al dr. ESTI, procedendo poi ad archiviazione della vertenza nei confronti dei primi, anche alla luce delle deduzioni trasmesse dai medesimi eredi Lancuba, in quanto all’esito del processo penale non è stata accertata, né riscontrata alcuna traccia documentale del materiale passaggio di denaro o di altri benefici dall’organizzazione criminosa al de cuius.

Più specificamente, nella domanda attrice si deduce che il danno esistenziale consegue, in generale, alla lesione di beni non patrimoniali di rango costituzionale, fra i quali “vi è senz’altro quello consacrato nell’art. 97 la cui violazione costituisce vulnus d’immagine per la P.A.”, lesione che nel caso di specie è avvenuta, sotto il profilo dell’evento, mediante “la perfetta coincidenza tra agire dell’amministrazione e sua manifestazione negativa”, dovuta al fatto che i suindicati magistrati – pubblici ufficiali titolari di alta funzione istituzionale nell’ambito dell’amministrazione della giusitizia – hanno rappresentato addirittura espressione e simbolo riconosciuto della forza intimidatrice facente capo alla sanguinaria organizzazione camorristica Alfieri-Galasso, tutelandone gli interessi dall’interno stesso delle Istituzioni, in modo da essere a tutti gli effetti considerati referenti stabili dell’organizzazione e quindi veri e propri partecipi della stessa. Indipendentemente dal clamore suscitato in sede mediatica, il danno esistenziale rilevato deriva, ad avviso del requirente, dal fatto che, essendo notorio l’asservimento dell’amministrazione della giustizia alla tutela di interessi privati altamente illeciti grazie all’attiva connivenza di soggetti cui era – per contro - affidata una rilevante funzione di garanzia di legalità, gli esponenti del clan camorristico, da un lato, agivano nella certezza dell’impunità, mentre i comuni cittadini, dall’altro lato, erano costretti a comportarsi in modo tale da “difendersi, tutelarsi, o adeguarsi a tale sistema”, che tale era stante la stabilità, e non la sporadicità o la mera occasionalità, dei comportamenti degli alti rappresentanti delle Istituzioni – quali l’odierno convenuto – intesi a determinare lo svolgimento dell’amministrazione della giustizia in totale difformità rispetto al modello legale.

In siffatti casi – osserva ancora la Procura – “l’unica evidenza istruttoria della lesione all’immagine è il disdoro, la disistima sociale, la reputazione compromessa”, di modo che “il pregiudizio all’immagine è in re ipsa, ed è ontologicamente legato alla lesione del diritto” costituzionalmente garantito alla corrispondenza dell’azione amministrativa al modello delineato dagli artt. 97 e 101 Cost.

Da ciò, una soluzione squisitamente risarcitoria – non essendo possibile una soluzione inibitoria consistente nell’”imporre al danneggiante comportamenti positivi ed in forma specifica” – da basare su di una valutazione equitativa del danno, che il requirente ha proposto nel suindicato ammontare “avendo a riferimento  parametri di pari dignità, quali il buon nome dell’istituzione o dell’amministrazione interessata, la complessità o la dimensione della struttura organizzativa danneggiata ed i (gravissimi) effetti su di essa del comportamento dannoso, il campo di azione e il più o meno elevato livello di impatto sociale della sua attività, gli interessi delle comunità coinvolte”.

Tutto ciò considerato, la Procura ha concluso chiedendo la condanna del signor Antonio ESTI nei termini specificati in apertura.

Il convenuto si è costituito in giudizio con memoria depositata in Segreteria il 10.04.2009, per il tramite dei difensori incaricati avvocati Nicola Mazzacuva e Francesco Cardile; ha ivi concluso, in via preliminare, per la sospensione del giudizio in attesa della definitiva conclusione di quello penale tuttora pendente innanzi alla S.C. e, comunque, per la declaratoria di estinzione per prescrizione dell’azione di responsabilità amministrativo contabile. Nel merito, ha chiesto il rigetto della domanda attrice, nonché, in subordine, l’applicazione di ampio potere riduttivo.

Ha dedotto, in particolare, la non completa esposizione della vicenda penale che ha visto coinvolto il dr. ESTI nell’atto introduttivo del giudizio, la genericità dello stesso in ordine ai fatti contestati al medesimo convenuto e la sua lacunosità e contraddittorietà in relazione alle stesse contestazioni di addebito. Ha rilevato, inoltre, il riferimento di queste ultime, a conclusione delle quali è stato quantificato un danno all’immagine della P.A. del tutto sproporzionato e senza adeguato sostegno probatorio, soltanto alle statuizioni della pronuncia del Tribunale di Salerno del luglio 2000, già ampiamente riformata e dunque superata in sede penale, con la conseguenza della ravvisata opportunità – ed anzi necessità – di sospendere il giudizio ai sensi dell’art. 295 c.p.c., avendo il procedimento penale tuttora pendente ad oggetto i medesimi fatti sottoposti all’esame della Sezione. In punto di prescrizione, il dr. ESTI ha evidenziato che l’azione di responsabilità cui è stato sottoposto dovrebbe essere dichiarata estinta, essendo decorso ben più di un quinquennio tra la commissione dei fatti ritenuti illeciti – o comunque rispetto alla loro conoscibilità – e la notifica dell’atto di citazione ed essendo inidonei ad interrompere il termine prescrizionale in parola sia la costituzione di parte civile – comunque nel caso di specie abbandonata nel 2002 – e sia la notifica dell’invito a dedurre.

In data 28.04.2009 la Procura Regionale ha provveduto a depositare presso la Segreteria della Sezione la sentenza n. 7843/08 della Corte d’Appello di Roma – Sezione II^ Penale, con la quale nei confronti del convenuto è stato dichiarato il non luogo a procedere per il delitto di corruzione, essendo il medesimo estinto per prescrizione, ed ha confermato la condanna per il reato di cui all’art. 416 bis c.p., riducendo la pena comminatagli dal Tribunale di Salerno nel 2000 (sentenza n. 2900) ad anni cinque di reclusione.

Alla pubblica udienza odierna l'avv. Francesco Cardile ha ritenuto di soffermarsi soltanto sulla preliminare istanza di sospensione del giudizio ai sensi dell’art. 295 c.p.c., in attesa della definizione di quello penale, tuttora in corso, avente ad oggetto i medesimi fatti dedotti nella presente sede; ha evidenziato, sul punto, che tali fatti non sono ad oggi acclarati nell'ambito dell'iter processuale penale, estremamente sofferto sin dall'inizio ed ancora oggi. Ha citato, sul punto, la sentenza non definitiva – ordinanza n. 108/2009 di questa Sezione Giurisdizionale, con cui è stata decisa la sospensione del giudizio contabile in corso in attesa della definizione del processo penale riguardante i medesimi fatti ivi controversi. Ha concluso insistendo per l’accoglimento dell’istanza in parola.

Il P.M. di udienza si è espresso sfavorevolmente all'accoglimento dell'istanza medesima, ritenendo che la pretesa attorea presenti tutti i requisiti di accoglibilità, per quanto esposto nell'atto introduttivo del giudizio ed in presenza delle tre sentenze di condanna già pronunciate in danno di ESTI in sede penale; ha rilevato, sul punto, che la statuizione assolutoria della C.A. di Salerno del 2002 si è fondata sull'art. 530, 2° comma, c.p.p., cioè non è stata assunta con la formula ampia di cui al 1° comma del medesimo articolo, ma con quella cosiddetta “dubitativa”. Ha fatto, inoltre, riferimento, al fine di rafforzare l'evidenza dei fatti produttivi di danno all'immagine, al recente rigetto del ricorso del dr. ESTI avverso la misura disciplinare cautelare applicatagli dal C.S.M., statuito dalla Corte di Cassazione.

Considerato in

DIRITTO

1. Il Collegio deve preliminarmente procedere all'esame dell'eccezione di estinzione per prescrizione dell’azione di responsabilità esperita dal requirente contabile, sollevata dal convenuto; l'eccezione in parola si appalesa priva di pregio, per i motivi che di seguito si espongono.

Preliminarmente, occorre ricordare come il comma 2° dell'art. 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, disponga che: “il diritto al risarcimento del danno si prescrive in ogni caso in cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso, ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta”.

In primo luogo, si deve evidenziare come non sussista dubbio alcuno circa il fatto che (come si evince pacificamente dalle sentenze di condanna del dr. ESTI nn. 2900/00 del Tribunale di Salerno – 3^ Sezione Penale, 7598/05 della C.A. di Roma – 1^ Sezione Penale e 7843/08 della C.A. di Roma – 2^ Sezione Penale, nonché perfino dalla sentenza assolutoria n. 1229/03 della C.A. di Salerno, relative ai fatti di causa) i comportamenti lesivi dell’immagine dell’Amministrazione giudiziaria de quo siano stati posti in essere in maniera occulta, avendo il convenuto agito allo scopo non solo di trarre vantaggio ma anche di occultare la propria attività delittuosa.

Ciò posto, è stato anche da ultimo affermato che “… la decorrenza del termine di prescrizione non può ritenersi anteriore al perfezionamento della fattispecie di danno all'immagine che coincide con l'intervenuto passaggio in giudicato … della sentenza definitiva in sede penale di condanna dell'odierno convenuto. La verità dei fatti penalmente illeciti, attribuiti al … è da considerare elemento costitutivo di tale tipo di danno  (v. in senso conforme sentenza n. 61/A della Corte dei conti Sezione d'Appello per la Regione siciliana  depositata il 9 marzo 2006)” (Sezione Giurisdizionale Sicilia, sentenza n. 304/2007).

Tale ultimo orientamento giurisprudenziale, sebbene non univoco, viene in questa sede ribadito, in quanto non si ritiene di poter condividere l'impostazione secondo cui, ai fini dell'individuazione del momento consumativo del danno all'immagine, ci si debba ricondurre al momento della realizzazione dello “strepitus fori” (pubblicazione dei fatti sui giornali) o dello “strepitus iudicii” (riconducibile al rinvio a giudizio in sede penale), configurando la fattispecie di che trattasi un illecito istantaneo, anche se con effetti permanenti.

Invero, anche la Sezione I d'Appello, con la sentenza n. 186/2005, ha posto in rilievo “che, comunque, il danno all'immagine deve avere un dies a quo diverso in quanto, nel caso, deve valutarsi che, comunque, il clamor fori che caratterizza la fattispecie imputabile ai chiamati deve considerarsi realizzato successivamente al mero rinvio a giudizio”.

Nel medesimo senso sono orientate anche le sentenze nn. 2254/2004 della Sezione Giurisdizionale Emilia Romagna, 215/2004 della Sezione II d'Appello, 2248/2008 di questa Sezione e 97/2009 della Sezione I d'Appello, solo per citarne alcune a mero titolo esemplificativo.

Da tali precedenti giurisprudenziali è possibile evincere il principio, che il Collegio intende in questa sede riaffermare, secondo cui, poiché i fatti addebitati costituiscono reato, va fatta applicazione del 3° comma dell'art. 2947 c.c., in forza del quale il termine di prescrizione decorre dalla data in cui la sentenza penale è divenuta irrevocabile. Invero, la prescrizione non può essere fatta decorrere se non dal momento in cui l’illecito acquisisce sicura attitudine lesiva per la P.A., cioè dal momento in cui riceve definizione il procedimento penale inerente il reato che ne rappresenta la fonte.

Orbene, nel caso all’esame l’ultima sentenza di condanna, n. 7843/08 della Corte d’Appello di Roma – 2^ Sezione Penale emessa nei confronti del dr. ESTI, non è ancora divenuta irrevocabile, stante la pendenza di ricorso innanzi alla Corte di Cassazione (cfr. all. n. 1 al Fascicolo di parte), di modo che il predetto termine di prescrizione non ha ancora iniziato a decorrere.

L’eccezione in questione deve pertanto essere disattesa.

2. In riferimento alla richiesta sospensione del giudizio di responsabilità in attesa della definizione del procedimento penale che vede tuttora pendente il ricorso innanzi alla Corte di Cassazione presentato da Antonio ESTI avverso la sentenza n. 7843/08 della Corte d'Appello di Roma – 2^ Sezione Penale (che ha statuito …), si osserva quanto segue.

Al riguardo, il Collegio ritiene necessario precisare in primo luogo che, in merito ai rapporti tra giudizio penale e giudizio di responsabilità amministrativo-contabile, quando i due giudizi vertono sullo stesso soggetto e sullo stesso fatto, è principio ormai pacifico che il nuovo codice di procedura penale, introdotto nel 1988, ha eliminato dall’ordinamento non solo l’art. 3 c.p.p., ma anche ogni riferimento ad esso dal testo novellato dell’art. 295 c.p.c., cosicché deve ritenersi che il nostro ordinamento non sia più ispirato al principio di pregiudizialità obbligatoria del processo penale del quale la norma (art. 3 c.p.p.) era espressione.

Pertanto non esiste più, nei rapporti fra i due giudizi, la c.d. pregiudiziale penale, e i due giudizi si pongono in autonomia e separatezza fra loro, essendo i reciproci effetti disciplinati nel nuovo codice nei limiti indicati dall’art. 651 e 652 c.p.p.

Tale principio, affermato per la prima volta dalle Sezioni Riunite di questa Corte nel 1990 (sent. n. 648 del 5.2.1990), è stato più volte ribadito anche in epoca recente, per cui può senz’altro sostenersi che nel sistema del nuovo codice, improntato alla separatezza dei processi, non esiste un’ipotesi di sospensione necessaria del giudizio di responsabilità amministrativa in rapporto alla pendenza di un giudizio penale (Cfr. Sez. I Centr., 24.01.2008 n. 54/A; 23.03.2005 n. 100/A;17.09.2001 n. 266/A; Sez. II Centr., 10.9.2001 n. 291/A e 16.10.2001 n. 330/A; Sez. III Centr., 19.05.2008 n. 171/A); e difatti, le due ipotesi di sospensione necessaria contemplate nel terzo comma dell’art. 75 c.p.p. (azione proposta in sede civile dopo la costituzione di parte civile nel processo penale o dopo la sentenza penale di primo grado) riguardano esclusivamente il processo civile e, quindi, non potrebbero trovare applicazione nel giudizio contabile (Sez. II centr., n. 186 del 27.07.1998) .

Tutto ciò ha portato anche all’affermazione della mancanza di pregiudizialità del processo penale ex art. 295 c.p.c. come novellato, posto che i fatti a fondamento del processo penale e di quello amministrativo di danno sono valutabili autonomamente in ragione della distinta natura del fatto illecito da valutarsi e della diversa sanzione da comminarsi, facendo stato nel processo contabile l’accertamento dei fatti nei limiti della loro materialità oggettiva e solo se già accertati con sentenza penale definitiva di condanna, ai sensi dell’art. 651 c.p.p., in tali limiti essendo vincolante il processo penale concluso con sentenza irrevocabile prima della definizione del processo contabile (Sez. I centr., n. 184 del 20.06.2000, Sez. Lazio, n. 236  del 14.02.2000; Sez. Lombardia, n. 1551 del 14.12.1999; Sez. Puglia, n. 11 del 15.02.2000).

E’ stato pure sostenuto (Sez. I, n. 250 del 16.07.1991) che, in ragione di quanto precedentemente affermato sulla autonomia dei due processi, ben può il giudice contabile conoscere e valutare per il proprio convincimento gli elementi e le prove acquisiti nel procedimento penale senza dover attendere la pronuncia penale definitiva, soprattutto in presenza di altri concordanti elementi di valutazione (Sez. I Centr., n. 100 del 23.03.2005; n. 266 del 17.9.2001; Sez. Umbria, n. 34 del 22.1.2001).

Né può sottacersi che, vigente il nuovo testo dell’art. 295 c.p.c., anche quella parte della giurisprudenza che ritiene comunque possibile o “opportuna” la sospensione c.d. facoltativa del giudizio di responsabilità, tuttavia la esclude quando l’impianto probatorio sia già di per sé sufficiente ai fini del decidere, a prescindere dalla condanna per il reato contestato (Sez. III centr., 19.05.2008, n.171/A; Sez. I centr., 14.11.2000 n. 331/A). Nello stesso senso è anche la giurisprudenza della S.C. di Cassazione (Cass. Civ., n. 7057 del 29.5.2000, n. 6792 del 24.5.2000). In ogni caso, la Corte Costituzionale con la recente sentenza n. 272/2007 ha fugato ogni dubbio sulla non necessità della sospensione (Sezione I Appello, sentenza n. 532/2008).

E, oltretutto, è stato affermato (vedi SS.RR. di questa Corte, nella sentenza n. 16/QM/1999, indirizzo confermato da ultimo da Corte di Cassazione n. 12929 del 2007), con specifico riferimento a fattispecie che - quale quella all’esame – riguardano ipotesi di cd. danno all’immagine, che sia ammissibile l’autonomo esercizio della giurisdizione sul danno non patrimoniale in tutte le ipotesi in cui non sussista o non sia stato richiesto il risarcimento del conseguente danno patrimoniale: “… L’autonoma risarcibilità discende ex se dal pregiudizio arrecato dall’evento lesivo e discende, altresì, dal comportamento produttivo di tale evento che abbia comportato la diminuzione di valore nel patrimonio della struttura pubblica”. In sostanza ciascuna tipologia di danno è posta a tutela di un diritto che è quello di credito per il danno patrimoniale diretto mentre per il danno all’immagine è quello assoluto della personalità. Per essere risarcibile la violazione del diritto alla personalità deve superare una soglia minima di gravità che, per quanto già sopra indicato, non è sicuramente segnata dall’esistenza di un reato.

Alla luce dei principi giurisprudenziali ora menzionati, cui questo Collegio ritiene di poter aderire, consegue che nel caso all’esame, la Sezione può verificare la sussistenza del solo danno all’immagine determinato dal comportamento altamente illecito e lesivo dell’immagine della Pubblica Amministrazione del convenuto, ancorchè non vi sia stato un giudicato penale di condanna per reato (per le ragioni già esposte in punto di prescrizione dell’azione di responsabilità amministrativo-contabile) e benché al medesimo non sia stato contestato alcun danno patrimoniale diretto (Sezione Giurisdizionale Lazio, sentenza n. 183/2009).

Invero, deve osservarsi che la vicenda all’esame del Collegio si presenta sufficientemente chiara nella sua realtà fenomenica, risultando la condotta illecita del signor Antonio ESTI già sufficientemente delineata e provata da quanto emerge dalle pronunce di condanna emesse in sede penale.

E difatti, dalla lettura delle rispettive parti motive si evincono una molteplicità di elementi probatori a conforto delle accuse mosse all’ESTI, di modo che i fatti lesivi del diritto all’immagine della PA, nella specie, risultano pienamente acclarati, per quanto oltre si vedrà, in punto di analisi degli elementi oggettivo e soggettivo dell’illecito amministrativo-contabile di cui si controverte.

Inoltre, la sentenza non definitiva–ordinanza n. 108/2009 di questa Sezione Giurisdizionale – citata nella pubblica udienza dall'avv. Francesco Cardile a sostegno della richiesta di sospensione del giudizio qui esaminata – ha disposto “l'acquisizione, a cura della Procura Regionale, della sentenza che verrà pronunciata a definizione del giudizio penale ... attualmente pendente innanzi al ... Tribunale di Napoli”, cioè ha limitato il supplemento istruttorio alla sola decisione conclusiva del primo grado di giudizio, in quanto eminentemente riservato all'accertamento del merito degli illeciti contestati; di modo che il richiamo operato dalla difesa del convenuto a precedente e recente pronuncia di questa Sezione si appalesa del tutto inconferente, essendosi nel caso di specie ampiamente concluso il primo grado del giudizio penale ed essendosi svolto appello alla sentenza conclusiva di esso per ben tre volte, stanti le pronunce cassatorie della S.C.

Pertanto la richiesta del convenuto, di sospensione del giudizio per pendenza del processo penale, deve essere respinta.

3. Venendo all'esame del merito della fattispecie, il Collegio deve procedere alla verifica della sussistenza, nel caso concreto, degli elementi tipici della responsabilità amministrativa che, com’è noto, si sostanziano in un danno patrimoniale, economicamente valutabile, arrecato alla pubblica amministrazione, in una condotta connotata da colpa grave o dolo, nel nesso di causalità tra il predetto comportamento e l'evento dannoso, nonché nella sussistenza di un rapporto di servizio fra coloro che lo hanno determinato e l'ente che lo ha subito.

4. Con riferimento all'elemento oggettivo del nocumento patrimoniale, sembra opportuno premettere alcune osservazioni in ordine all'inquadramento sistematico del danno oggetto della pretesa risarcitoria dedotta nel presente giudizio, ovvero del danno all'immagine.

Tale categoria di deminutio non patrimoniale ha ricevuto un fondamentale arresto, nell'ambito della giurisprudenza contabile che sino ad allora lo aveva ricollegato alla previsione dell'art. 2059 c.c. (Danni non patrimoniali: “Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge”), con la sentenza  n. 10/2003/QM delle SS.RR. di questa Corte, in cui il danno all'immagine della PA è stato individuato come danno esistenziale, ovvero come “la forzosa rinuncia allo svolgimento di attività non remunerative, fonte di compiacimento o benessere per il danneggiato, perdita non causata da una compromissione dell’integrità psicofisica”, da configurarsi “come un pregiudizio areddituale (prescinde dal reddito del danneggiato), non patrimoniale (in quanto non ha ad oggetto la lesione di beni od interessi patrimoniali), tendenzialmente omnicomprensivo, in quanto qualsiasi privazione, qualsiasi lesione di attività esistenziali del danneggiato può dar luogo a risarcimento”.

La risarcibilità – in generale - del danno esistenziale, quale categoria comprensiva della tradizionale figura del cd. danno biologico, e del danno all'immagine della PA in particolare è stata fondata – sempre secondo l'orientamento espresso dalle SS.RR. nella citata decisione del 2003 - sul disposto dell’art. 2043 c.c. (da ricollegare per il danno all'immagine che qui rileva alle generali previsioni dell’art. 82 del r.d. n. 2440 del 1923, dell’art. 52 del r.d. n. 1214 del 1934, dell’art. 18 del d.p.r. n. 3 del 1957 e delle norme ad esse successive), con la conseguenza che l’atto non giustificato che, violando un interesse meritevole di tutela secondo l'ordinamento giuridico, arreca ad altri un danno, costituisce un atto illecito e obbliga l’autore dell’atto al risarcimento di esso.

Il danno all’immagine della persona giuridica pubblica s'inquadra in tale contesto tenendo conto dell'emergere, dall’intervenuta evoluzione del quadro normativo di riferimento, di “una configurazione della responsabilità amministrativa nella quale trova collocazione anche la tutela di interessi ulteriori rispetto a quelli della semplice integrità patrimoniale ma ugualmente fondamentali in una società moderna, tesa all’efficienza dei propri apparati pubblici, ed espressi dai principi costituzionali dell’art. 97, 1°e 2° comma, recepiti nella nuova disciplina dell’agire amministrativo (art. 1, 1° comma legge n. 241 del 1990)” (SS.RR., sentenza n. 10/2003/QM).

Traendo spunto, cioè, da una rilettura della nozione e della funzione della responsabilità di diritto comune incentrata su di una più ampia descrizione della fondamentale norma dell’art. 2043 c.c. secondo una maggiore attenzione alle esigenze di tutela della collettività, si perviene “ad una più appropriata configurazione della responsabilità amministrativa in cui, oltre alla tradizionale funzione recuperatoria e restauratrice del patrimonio pubblico, occorre tener conto della tutela di quei sostanziali interessi della collettività che sono di generale rilevanza”.

Il diritto all'integrità dell'immagine della PA, che trova la propria fonte primaria nelle previsioni degli artt. 2 e 97 Cost. - di cui il secondo, in particolare, disciplina al 1° comma i principi di imparzialità e buon andamento dell'agire amministrativo ed al 2° comma postula la determinazione delle sfere di competenza, attribuzioni e responsabilità proprie dei funzionari – rappresenta, più specificamente, “il diritto di realizzarsi e di operare in modo efficace, efficiente, imparziale e trasparente nei confronti dei propri dipendenti e dei propri amministrati”, di modo che la lesione di esso “non potrà che consistere nella mancata realizzazione della specifica finalità perseguita dalla norma di tutela e quindi coincidere con la violazione della stessa”.

La sentenza n. 10/2003/QM delle SS.RR. in parola, quindi, ha efficacemente posto in rilievo che “La violazione di questo diritto all’immagine, intesa come diritto al conseguimento, al mantenimento ed al riconoscimento della propria identità come persona giuridica pubblica, è economicamente valutabile. Essa infatti si risolve in un onere finanziario che si ripercuote sull’intera collettività, dando luogo ad una carente utilizzazione delle risorse pubbliche ed a costi aggiuntivi per correggere gli effetti distorsivi che sull’organizzazione della pubblica amministrazione si riflettono in termini di minor credibilità e prestigio e di diminuzione di potenzialità operativa”.

Siffatta lesione è stata individuata dalle Sezioni Riunite, in armonia con le statuizioni poste dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale già con le sentenze n. 184 del 1987 e n. 372 del 1994, come danno-evento e non come danno-conseguenza, rilevando che la prova dell’esistenza del documento va ritenuta come offerta in re ipsa in presenza della violazione del diritto all'immagine della PA e che tale prova va distinta da quella che concerne l'entità della lesione provocata. “Oggetto del risarcimento non può che essere una perdita cagionata dalla lesione di una situazione giuridica soggettiva e la liquidazione del danno non può riferirsi se non a perdite. A questi limiti soggiace anche la tutela risarcitoria dei danni non patrimoniali causati dalla lesione di diritti od interessi costituzionalmente protetti, quale il diritto alla immagine, con la peculiarità che essa deve essere ammessa, per precetto costituzionale, indipendentemente dalla dimostrazione di perdite patrimoniali, oggetto del risarcimento essendo la diminuzione o la privazione di valori inerenti al bene protetto”.

In punto di individuazione dei parametri cui fare riferimento per la valutazione del danno all'immagine, le Sezioni Riunite hanno indicato in via esemplificativa “il rilievo e la delicatezza dell’attività svolta dall’amministrazione pubblica, la ... posizione funzionale dell’autore dell’illecito, le negative ricadute socioeconomiche (il non poter più fare) sui componenti dell’amministrazione o sui soggetti da essa amministrati come quelle derivanti dalla presenza di sistema concussivo idoneo a scoraggiare l’attività imprenditoriale, la diffusione, la gravità e la ripetitività dei fenomeni di malamministrazione, la significativa rilevante compromissione dell’efficienza dell’apparato, la necessità di onerosi interventi correttivi, la negativa impressione suscitata dal fatto lesivo nell’opinione pubblica per effetto del clamor fori e/o della risonanza data dai mezzi di informazione di massa (cfr. sez. Umbria, 4 marzo 1998, n. 252). Si noti sotto quest’ultimo aspetto che il clamore e la risonanza non integrano la lesione ma ne indicano la dimensione”.

Successivamente – come già posto in rilievo nella sentenza n. 2247/2008 di questa Sezione Giurisdizionale - la più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione (Sezione Terza Civile n. 12929 del 2007) e della Corte dei Conti (Sezione Seconda Centrale d’Appello n. 234 del 2007 e Sezione Giurisdizionale Regione Lombardia n. 545 del 2007) ha progressivamente delineato il “danno alla immagine” (in quanto danno alla funzione pubblica e, quindi, al corretto e diligente esercizio delle attività intestate dall’ordinamento nel suo complesso – e dalla Costituzione in particolare – alla Pubblica Amministrazione) come danno risarcibile indipendentemente dal verificarsi di un danno patrimoniale diretto, inteso come tradizionale deminutio patrimonii secondo la previsione del surrichiamato art. 2043 c.c.

Con tale orientamento è stato affinato, in sintonia con la più accreditata letteratura giuridica – si osserva ancora nella pronuncia di questa Sezione dianzi citata - un complesso iter esegetico cristallizzatosi nella prefata pronuncia n. 10/2003/QM delle SS.RR. di questa Corte, sulla base dei seguenti principi:

1. anche nei confronti della persona giuridica pubblica o privata – e in generale di un qualsiasi ente esponenziale degli interessi della collettività – è configurabile la risarcibilità del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.) quando il fatto lesivo venga a incidere su diritti fondamentali e inviolabili equivalenti a quelli della persona fisica garantiti dalla Costituzione;              

2. fra tali diritti rientra l’”immagine” della persona giuridica o dell’ente (arg. ex artt. 2, 3 primo comma e 97 primo comma Cost.);

3. allorché si verifichi la lesione del’“immagine”, è risarcibile (oltre al danno patrimoniale, se verificatosi e provato, attinente anche alla spesa occorsa per il ripristino del bene leso) il danno non patrimoniale, costituito dalla diminuita considerazione (nel che si esprime la “immagine” nella sua essenza ontologica) sia all’interno della struttura amministrativa (profilo della incidenza negativa fra i singoli operatori di settore) che nell’ambito della comunità sociale (profilo del discredito proiettato all’esterno); 

4. il danno non patrimoniale va liquidato in via equitativa (art. 1226 c.c.) tenendo conto di più circostanze e, soprattutto, dell’importo della tangente eventualmente percepita (parametro essenziale, perché l’entità del denaro ricevuto indica la misura dell’alterazione della funzione pubblica), dei compiti istituzionalmente assegnati all’autore dell’illecito e della particolare gravità dei fatti accertati;

5. la valutazione equitativa può essere parametrata anche alla risonanza mediatica ed al clamor fori; trattasi, però, di allegazioni non essenziali, in quanto il discredito avvertito nell’ambito degli interna corporis è di per sé valido elemento (pur in assenza di eco esterna) ai fini di una compiuta individuazione del “danno all’immagine”.        

Conclusivamente, il “danno all’immagine” deve considerarsi risarcibile autonomamente e in via equitativa, rispetto al danno patrimoniale diretto che il medesimo comportamento illecito possa aver causato alla Pubblica Amministrazione.

Da quanto innanzi osservato, si evince che l’orientamento espresso nella decisione n. 10/2003/QM delle SS.RR. di questa Corte dei conti, secondo cui la risarcibilità del danno all’immagine della PA quale sottocategoria del più ampio danno esistenziale è riconducibile alla previsione dell’art. 2043 c.c., è stato successivamente integrato alla luce delle sentenze n. 8827 e 8828 del 31.5.2003 della Corte di Cassazione, in cui viene prospettata un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., tesa a ricomprendere nell'astratta previsione della norma ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona, ivi incluso il danno derivante dalla lesione di interessi di rango costituzionale inerenti alla persona stessa. La Corte di Cassazione ha ritenuto risarcibile il danno non patrimoniale anche in favore delle persone giuridiche, soggetti per i quali non è ontologicamente configurabile un coinvolgimento psicologico in termini di patemi d'animo (S.C., sentenza 2367/00).

“Le citate sentenze hanno quindi chiarito che, nel caso in cui la lesione abbia inciso su un interesse costituzionalmente protetto, la riparazione mediante indennizzo, ove non sia praticabile quella in forma specifica, costituisce la forma minima di tutela” (Sezione Giurisdizionale Lazio, sentenza n. 85/2009).

4.a. Ciò premesso ai fini dell’inquadramento generale della tipologia d’illecito dedotto nel presente giudizio, si osserva, con specifico riferimento alla fattispecie concreta all’esame del Collegio, che la pretesa risarcitoria dedotta dal requirente trae origine dal fatto che in sede penale sono emersi a carico del convenuto rilevanti profili d’illecito, ai sensi, in particolare, degli artt. 319-321, nonché 110 e 416 bis, commi 1°-2°-4°-5°, c.p.

Più specificamente, il dr. ESTI – come già anticipato in premessa - ha ricevuto condanna per i reati previsti dalle summenzionate disposizioni con le sentenze nn. 2900/00 del Tribunale di Salerno – 3^ Sezione Penale, 7598/05 della Corte d’Appello di Roma – 1^ Sezione Penale e 7843/08 della medesima C.A. di Roma – 2^ Sezione Penale (sebbene in quest’ultima pronuncia si statuisca l’estinzione per prescrizione degli illeciti corruttivi); la seconda delle sentenze appena citate è stata emessa a seguito di annullamento con rinvio della sentenza n. 1229/02 della Corte d’Appello di Salerno, assolutoria per quanto concerne la posizione dell’odierno convenuto, pronunciato dalla Corte di Cassazione con decisione del 04.11.2003; la sentenza n. 7598/05 della Corte d’Appello di Roma – 1^ Sezione Penale è stata a sua volta annullata, con rinvio alla medesima C.A. di Roma, con la decisione n. 12903/07 della Corte di Cassazione – I Sezione Penale, mentre per la sentenza n. 7843/08 della C.A. di Roma – 2^ Sezione Penale, emessa proprio a seguito di tale rinvio, pende ulteriore ricorso innanzi alla S.C.

Dalla lettura delle parti motive delle predette pronunce, ed in particolare di quella della sentenza n. 2900/00 del Tribunale di Salerno–3^ Sezione Penale – che ha compiuto l'accertamento di merito dei fatti illeciti contestati al dr. ESTI rimesso al primo grado di giudizio – emerge con assoluta chiarezza che l'odierno convenuto, sin dal 1985-1986 (anni in cui prestava servizio presso il Tribunale di Napoli) ed anche dopo il 22.03.1987 (data a partire dalla quale ottenne il trasferimento presso la Corte d'Appello di Bologna), assumeva una condotta “inquadrabile nell'ipotesi di concorso esterno nell'associazione” di stampo camorristico ‘Nuova Famiglia' facente capo ad ALFIERI Carmine”, poiché si presentava chiaramente come “un soggetto disponibile ad assecondare, con la prospettiva di sostanziose contropartite economiche, anche i disegni di pericolosi e sanguinari criminali, promettendo interventi in vicende giudiziarie che li riguardavano, da effettuare direttamente o attraverso terzi. A ciò certo si deve aggiungere che l'ESTI ha avuto rapporti di contiguità, se non di strettissima frequentazione con esponenti apicali dell'organizzazione facente capo all'ALFIERI”, quale Antonio Malvento, o comunque ad essa affiliati, come Matteo Sorrentino, Giuseppe Cillari, Matilde Ciarlante e Giuseppe Apreda, “rapporti protrattisi, per quanto riguarda il Malvento, sino all'immediata vigilia della sua morte” (ordinata dallo stesso Carmine Alfieri per il venir meno della fiducia nei suoi confronti) “e per ciò che attiene all'Apreda sino a poco prima del suo arresto”. Il Tribunale ha conclusivamente osservato che “gli accertati rapporti dell'ESTI con l'associazione ... assumono ... sicuro rilievo sub specie di concorso esterno, in quanto sintomatici della disponibilità dell'imputato ad offrire un contributo finalisticamente orientato a garantire l'esistenza o a determinare il rafforzamento del sodalizio criminoso … Innegabile è quindi la soggettiva e oggettiva attitudine dell'apporto assicurato dall'ESTI ad influire sulla realtà associativa, contribuendo al suo mantenimento, se non addirittura al suo consolidamento, donde il suo pieno coinvolgimento sul terreno della responsabilità penale come concorrente esterno in associazione camorristica”. “Anche la semplice garanzia d'intervento” - si osserva ancora nella sentenza n. 2900/00 del Tribunale di Salerno - “anche se poi non concretamente seguita da un effettivo intervento, si traduce, d'altro canto, in un innegabile rafforzamento della spinta delinquenziale, posto che il radicato e ragionevole convincimento che, in caso di necessità, l'istituzione, dal suo interno, è pronta e disponibile ad esercitare in maniera distorta la sua funzione repressiva, per l'infedeltà di un suo rappresentante, induce fatalmente, se non ad incrementare, certamente a non desistere dalle attività criminali tipiche della consorteria camorristica, venendo meno il potere deterrente della sanzione che può derivare solo dalla previsione di un corretto ed incisivo esercizio delle funzioni repressive” (pagg. da 349 a 353 della decisione n. 2900/00 del Tribunale di Salerno).

Appare evidente la rilevanza delle conclusioni cui il Tribunale di Salerno pervenne nel 2000 nell'analizzare la condotta delittuosa dell'odierno convenuto, ai fini della configurabilità nel caso all'esame della sezione del danno all'immagine della PA, in termini sia d’incidenza negativa nei confronti degli operatori del settore (amministrazione della giustizia) e sia di consistente discredito della relativa azione fra gli utenti esterni. Tale rilevanza è, poi, ulteriormente rafforzata da quanto osservato a pagina 358 della sentenza in parola, ove si evidenzia che “in tal modo l'organizzazione si convinse di poter contare sull'apporto di una persona, che all'occorrenza, o direttamente, o sfruttando le amicizie che aveva con i colleghi, era in grado di pilotare le decisioni di importanti processi a carico anche di esponenti di primo piano del sodalizio o addirittura del suo capo, adottando od ottenendo soluzioni processuali favorevoli”.

In punto di analisi circa la sussistenza a carico del dr. ESTI dell'illecito corruttivo, il Tribunale di Salerno ha, inoltre, osservato (a pagina 363) quanto segue. “Se con il Malvento sono stati stretti legami tanto saldi, da accettare la sua compagnia e le sue offerte nel comune soggiorno a Santo Domingo e da ipotizzare un suo contributo economico nell'acquisto di un immobile, se analoghi rapporti sono stati stabiliti con l'Apreda anche in vista di viaggi e crociere gratuitamente offerti su lussuose imbarcazioni, a tacere dello specifico episodio della Mercedes, se con riferimento al lungo soggiorno preso l'hotel Castelsandra di proprietà di personaggio collegato all'ALFIERI non vi è traccia alcuna di pagamento, così come non vi è traccia del versamento di somme di danaro per la locazione dell'immobile di Casoria, allora acquista definitiva e sicura credibilità il narrato dell'ALFIERI allorché ha attribuito all'imputato di avere accettato anche l'orologio ed i dollari quale ricompensa per la promessa di intervento a suo favore nella vicenda 'de qua' e per il successivo dichiarato interessamento”. Conseguentemente, il Tribunale di Salerno ha riconosciuto come sussistente la responsabilità di ESTI anche per il reato di corruzione propria antecedente.

Sia il sostanziale appoggio esterno all'organizzazione malavitosa facente capo a Carmine ALFIERI mediante l'esercizio fortemente distorto della propria funzione istituzionale e sia la ricezione da parte di ESTI delle dazioni dianzi sintetizzate in contropartita di ciò, sono state ritenute ampiamente e congruamente provati dal giudice di prime cure, sulla base delle dichiarazioni, rese anche in sede dibattimentale, di vari collaboratori di giustizia, che “hanno superato il controllo di attendibilità intrinseca” ed “hanno ricevuto anche il conforto di dati esterni qualificanti e ... del tutto rassicuranti”, quali, ad esempio, le dichiarazioni convergenti di altri collaboratori, primo fra tutti Pasquale GALASSO, la cui testimonianza su fatti appresi nell'ambito del sodalizio, stante la sua posizione di vertice nella relativa scala gerarchica, non può mai considerarsi, ad avviso del Collegio giudicante in primo grado, “de relato”, poiché si tratta “di un patrimonio conoscitivo derivante da un flusso circolare di notizie dello stesso genere di quello che si produce, di regola in ogni organismo associativo, relativamente ai fatti di interesse comune, donde la pregnanza e la rilevanza, sotto il profilo probatorio, della dichiarazione, anche se relativa a fatti non caduti sotto la diretta percezione del segnalante” (pagina 361 della sentenza n. 2900/00 del Tribunale di Salerno).

Sempre con riferimento al profilo probatorio, nella prefata decisione si osserva ancora che “D'altro canto, al di là delle dichiarazioni dei collaboratori, è l'intero contesto probatorio che conclama il coinvolgimento dell'ESTI nelle vicende oggetto di esame. La sua assidua frequentazione con il Malvento, ... i suoi contatti con altri personaggi gravitanti nell'orbita della consorteria facente capo all'ALFIERI, quali Cillari Giuseppe, Sorrentino Matteo, Apreda Giuseppe, Romano Luigi, la sua disponibilità, data o richiesta ad intervenire in vicende giudiziarie riguardanti alcuni di tali personaggi (vedi la segnalazione al Di Mauro per il procedimento relativo alle misure di prevenzione nei confronti della famiglia Sorrentino, l'interessamento promesso al Malvento per il procedimento riguardante i suoi congiunti, o la richiesta d'intervento a favore del GALASSO nel procedimento relativo alle estorsioni in danno dei contadini di Poggiomarino) compongono, nel loro insieme, un quadro ampiamente significativo di come l'ESTI intendesse il suo ruolo, di come fosse disponibile a svenderlo, cedendo probabilmente alle lusinghe della modalità e della vita agiata e brillante, fino a legarsi a personaggi di conclamato spessore criminale” (pagina 363 della sentenza n. 2900/00 del Tribunale di Salerno)”.

Risulta, quindi, di tutta evidenza l'efficacia lesiva dell'immagine dell'amministrazione della giustizia esplicata dalle condotte assunte dal dr. ESTI nella seconda metà degli anni ottanta attraverso l'appoggio, promesso o fornito, a vari rappresentanti dell'organizzazione camorristica denominata Nuova Famiglia nell'ambito di procedimenti giudiziari che li riguardavano, condotte accertate, del resto, attraverso riscontri probatori di tutto rispetto, precedentemente ricordati, fra i quali assumono particolare rilievo, ad avviso del Collegio, le dichiarazioni rese in sede dibattimentale dal giudice del Tribunale di Napoli – Sezione Misure e Prevenzione Umberto Di Mauro e dal P.M. Alessandro Pagano, preposti nelle rispettive funzioni al procedimento di applicazione di misure di prevenzione che nel periodo in considerazione (1985-86) riguardò membri della famiglia Sorrentino; le dichiarazioni di che trattasi, invero, sono risultate convergenti circa la segnalazione fatta da Antonio ESTI ad Umberto Di Mauro (su cui questi riferì prontamente, a causa della gravità del fatto, ai colleghi della Procura procedenti Alessandro Pagano e Luciano D'Emmanuele), con cui viaggiava sulla medesima automobile di servizio, in ordine alla serietà ed affidabilità degli imprenditori Sorrentino, che egli ben conosceva personalmente, rappresentando, dunque, al collega un particolare interessamento al “buon esito” della procedura di prevenzione che li riguardava.

La veridicità e l'elevato contenuto illecito di tali condotte hanno, poi, ricevuto piena conferma nella sentenza n. 7598/05 della Corte d'Appello di Roma-Sezione 1^ penale – pronunciata a seguito di annullamento con rinvio, disposto dalla Corte di Cassazione con decisione del 04.11.2003, della sentenza assolutoria n. 1229/03 della Corte d'Appello di Salerno, ritenuta affetta da vizio di motivazione, grave travisamento di vari elementi di fatto, rilevanti errori di diritto e di valutazione – in cui i fatti in questione vengono nuovamente e dettagliatamente analizzati, con “condivisione piena della motivazione dei primi giudici, quale espressa da pagina 311 a 363 della sentenza, nonché in tutti gli altri passaggi che richiamano le varie 'condotte' censurabili e/o penalmente rilevanti del reo ... motivazione da considerarsi qui riportata e fatta propria da questa Corte per relationem”, pur con i necessari rafforzamenti della motivazione medesima, “nel rispetto del principio stabilito dal giudice di legittimità (e perfettamente condivisibile) secondo cui è necessario valutare in termini complessivi e nella sua globalità l'intero materiale probatorio a disposizione, ... il tutto evitando di cadere nella già censurata, perché altamente deviante, valutazione atomistica di ciascun episodio in sé considerato, avulso dal contesto generale del complesso delle condotte illecite poste in essere dal prevenuto (magari col medesimo modus operandi) in un lungo arco di tempo, prescindendo dalle circostanze di tempo e di luogo ed in particolare dalle spiccate caratteristiche soggettive (di natura altamente delinquenziale) degli interlocutori del reo; la valutazione atomistica comporta e consente, infatti, una interpretazione riduttiva di ciascun episodio in sé considerato, come se fosse l'unico esistente, evitando di porre doverosamente l'esame sulle plurime connessioni soggettive ed oggettive tra analoghe e plurime condotte illecite precedenti e successive, laddove la valutazione complessiva dell'agire del soggetto, prolungato nel tempo ed in favore di soggetti tra loro strettamente collegati in consorteria criminosa, consente di avere un quadro d'insieme che permette di valutare anche ai fini dell'agire illecito o anche semplicemente anomalo del reo e di individuare – conseguentemente – l'elemento psicologico unitario ed unificante i vari episodi”.

La sentenza in esame, che si conclude con statuizioni di piena condanna a carico di ESTI, fornisce, poi, una serie di rilevanti elementi valutativi in punto di elemento psicologico dell'illecito, di notevole ausilio anche nella presente sede, di cui si dirà oltre, cioè proprio nell'esame dell'elemento psicologico della contestata responsabilità amministrativo-contabile.

D'altra parte, la stessa sentenza n. 1229/03 della Corte d'Appello di Salerno ha riconosciuto – come si evince dalla lettura della parte motiva della decisione cassatoria del 04.11.2003 della S.C. - esservi prova di frequentazioni da parte di ESTI con esponenti della Nuova Famiglia, di interessamento per alcuni processi e di benefici economici sui quali la prova da parte del magistrato di aver pagato autonomamente è lacunosa, salvo, poi, ritenere “non esservi prova di un rapporto sinallagmatico tra tali benefici e specifici fatti d'interessamento” e sottolineare la mancanza di prova in merito al fatto che “l'ESTI si fosse adoperato a favore del sodalizio criminoso nei casi in cui egli stesso era giudice incaricato di trattare procedimenti contro gli affiliati all'associazione camorristica”.

Nel censurare la pronuncia della C.A. di Salerno appena citata, la S.C. ha osservato, in particolare, che la “Corte d'Appello non ha fatto buon governo delle risultanze processuali ed è fondata la censura di violazione del disposto dell'art. 192, comma 3, c.p.p.”, in quanto ha “omesso di considerare che il concorso nel reato di associazione a delinquere di stampo mafioso si realizza con qualsiasi condotta che si traduca in un contributo al raggiungimento dei fini dell'associazione, sì che l'esistenza di vantaggi percepiti rappresenta un elemento di prova del rapporto instaurato, ma non è un elemento costitutivo della condotta illecita. Ne deriva che ... il nesso sinallagmatico tra la prestazione fornita ed i vantaggi percepiti ... mantiene la sua rilevanza anche quando ... vantaggi e favori ricevuti condizionano la libertà di autodeterminazione del soggetto e lo spingono a porre in essere gli interventi funzionali alle esigenze dell'associazione camorristica”.

La Corte d'Appello di Roma – Sezione 2^ Penale, che si è pronunciata con la sentenza n. 7843/08 a seguito dell'annullamento con rinvio ad altra Sezione della decisione n. 7598/05 della medesima C.A. statuito dalla I Sez. Penale della C. Cass.,  ricostruendo ancora una volta i fatti addebitati al dr. ESTI, ha sostanzialmente confermato la validità del quadro probatorio già acquisito e descritto nel primo grado di giudizio svoltosi innanzi al Tribunale di Salerno, negando l'idoneità a riscontrare le dichiarazioni di Carmine Alfieri soltanto ad alcune affermazioni de relato del collaboratore di giustizia Pasquale Galasso e riconoscendo per contro la desumibilità della fondatezza dell'impianto accusatorio da tutti gli altri disponibili elementi di riscontro; il predetto giudice di seconde cure, dunque, ha osservato che dal menzionato (articolato) quadro probatorio emerge “come l'imputato avesse una costante disponibilità ad 'aggiustare' processi in favore di appartenenti alla camorra, ricercando e ricavandone, in cambio, indebite utilità” e che la condotta complessivamente tenuta dal dr. ESTI “dimostra una spiccata attitudine ad instaurare rapporti con individui che contino, quale che ne sia il campo d'azione, criminale o istituzionale, occulto o palese”, con la conseguenza di un elevatissimo livello di compromissione con la camorra, dimostrata in modo evidente anche dalla lettura della lettera indirizzata ad Armando Cono Lancuba, rinvenuta durante la perquisizione effettuata presso l'abitazione di ESTI, in cui questi chiedeva al collega di non rivelare a “Tonino” (Antonio) Malvento che lo stesso ESTI non aveva effettuato nei confronti di Lancuba, per dimenticanza, il promesso intervento per l'aggiustamento del processo riguardante il padre ed il fratello del Malvento. Quindi, dettagliatamente descritta la validità e la rilevanza degli acquisiti elementi di prova ai sensi dell'art. 192, 3° comma, c.p.p., la C.A. di Roma ha concluso, nella pronuncia del 2008, nel senso che “il delitto di corruzione come ascritto risulta quindi provato al di là di ogni ragionevole dubbio”, pur essendo estinto per prescrizione, mentre per quel che concerne il reato di concorso esterno in associazione mafiosa – per il quale ha reiterato la pronuncia di condanna precedentemente irrogata - ha svolto le rilevanti osservazioni che si riportano. “Poiché un magistrato che stabilisce rapporti diretti col capo stesso di un sodalizio criminale, che si adopera per 'aggiustare' un processo a suo carico, non può non essere consapevole di – e non volere che – rafforzare il sodalizio medesimo. Per il legame indissolubile che v'è tra la forza del capo e quella dell'associazione al cui vertice lo stesso si colloca. Perché un magistrato che, dopo essersi adoperato per 'aggiustare' un processo a carico del capo di un'associazione camorristica, si adoperi per aggiustare processi a carico ora di questo ora di quell'esponente di spicco dell'associazione stessa, a seconda che – e per come – ne venga richiesto, intende, evidentemente, favorire tutti gli associati e, dunque, l'associazione in quanto tale. E l'organizzazione criminale, che l'ESTI intese favorire, si rafforzò grazie al suo contributo”.

Orbene, i fatti posti in essere dal dr. ESTI, dai quali è derivata grave e reiterata lesione del diritto all'immagine della PA, possono dirsi, ad avviso del Collegio, ormai senz'altro accertati, poiché, anche se la sentenza n. 7598/05 della C.A. di Roma è stata annullata con rinvio con la decisione resa dalla Corte di Cassazione-I Sezione Penale in data 07.12.2006, mentre per la sentenza n. 7843/08 della medesima Corte d'Appello pende tuttora ricorso innanzi al giudice di legittimità, è altrettanto vero che l'annullamento della sentenza d'appello del 2005 è stato disposto in quanto dalla lettura della relativa parte motiva non emergono con chiarezza “i canoni ermeneutici impiegati per affermare la configurabilità nel caso di specie del concorso nel delitto associativo, non essendo stato affatto precisato se le condotte attribuite agli imputati abbiano avuto rilevanza causale costituendo 'condizione necessaria' ai fini della sopravvivenza e del rafforzamento della struttura associativa”, canoni abbisognevoli di specifica precisazione – ad avviso della Corte di Cassazione autrice dell'annullamento in parola - in applicazione dei principi posti dalle cc.dd. sentenze Carnevale e Mannino.

D'altra parte, per quanto concerne i motivi di ricorso addotti dal dr. ESTI avverso la sentenza n. 7843/08 della Corte d'Appello di Roma-2^ Sezione Penale, va posto in evidenza che i rilievi in esso svolti, che intendono evidenziare la contraddittorietà-illogicità della motivazione dell'impugnata pronuncia di condanna, investono aspetti più formali che sostanziali e forniscono una prospettazione fattuale degli illeciti, per cui è stata pronunciata per l'ennesima volta condanna nei confronti del dr. ESTI, diversa da quella più volte descritta dalle sentenze di che trattasi ma non adeguatamente sostenuta da argomentazioni tecnico-giuridiche di qualche spessore.

Ad ulteriore conferma della chiarezza del quadro fattuale della vicenda che ha originato il presente giudizio, soccorre – come giustamente posto in evidenza dal P.M. di udienza – la decisione del 13.05.2008 delle SS.UU. Civili della Corte di Cassazione, con cui è stato dichiarato inammissibile (perché proposto tardivamente) il ricorso presentato da ESTI avverso l'ordinanza della Sezione Disciplinare del 06.07.2007, con cui era stata rigettata l'istanza dell'interessato di revoca della sospensione dalle funzioni e dallo stipendio, irrogata con provvedimento del 13.06.2006. Di particolare rilievo, invero, sono le osservazioni svolte in tale ordinanza di reiezione, riportate nella pronuncia d'inammissibilità delle SS.UU. Civili della S.C., secondo cui “la contiguità del magistrato ad ambienti criminali è di per sé idonea a minarne il prestigio indipendentemente dalla strumentalità della condotta rispetto al rafforzamento dell'associazione” ed inoltre “dagli atti ... emergevano circostanze, in parte oggettivamente riscontrate (come i viaggi e i contatti telefonici, i soggiorni alberghieri) e in parte riconosciute dallo stesso incolpato (come le conoscenze e le frequentazioni con alcune delle persone risultate sicuramente organiche ad organizzazioni criminali), che assumevano rilievo disciplinare a prescindere dalla loro valenza quale indici di partecipazione esterna all'associazione mafiosa, per la cui sussistenza sono necessari ulteriori requisiti oggettivi e soggettivi”. La medesima Sezione disciplinare, secondo quanto riportato nella prefata decisione del 2008 delle SS.UU. Civ. della S.C., ha inoltre evidenziato che “tali circostanze si connotavano inoltre per caratteristiche di gravità tale da legittimare anche a distanza di tempo, per la radicale compromissione della figura professionale dell'incolpato, l'adozione di una misura cautelare”, concludendo nel senso che le ragioni dell'annullamento della sentenza n. 7598/05 della C.A. di Roma, pronunciato dalla C. Cass. nel 2006 “non apparivano tali da escludere la materialità dei fatti sui quali anche in precedenza il giudice disciplinare aveva fondato decisioni di analogo contenuto”.

Per quanto si qui osservato, deve concludersi nel senso che i fatti illeciti precedentemente descritti, ampiamente acclarati in sede penale, costituiscono senz'altro lesione dell'immagine dell'amministrazione della giustizia.

Invero, “il danno al prestigio dell'amministrazione deve ritenersi consumato anche a prescindere dalla diffusione a mezzo stampa della notizia dell'indagine e della condanna penale (c.d. 'clamor fori': cfr. in tal senso SS.RR. 10/QM/2003), in quanto la credibilità  di un soggetto viene lesa anche qualora la vicenda disonorevole venga a conoscenza non di una collettività indifferenziata ma solo della cerchia delle persone più direttamente in contatto con lui, le quali costituiscono il contesto sociale in cui tale persona opera e vive, la stima delle quali è per il soggetto più importante di quella di sconosciuti. Nella concreta fattispecie, sia per la normale pubblicità del processo penale tenutosi, sia per la gravità del fatto, sia per la funzione esercitata dal reo deve presumersi avvenuta la propagazione della notizia nel più ristretto ambito dei soggetti a vario titolo coinvolti nell'amministrazione danneggiata; nella fattispecie,  tra i colleghi del convenuto (magistrati), tra i collaboratori del personale di magistratura (funzionari, impiegati, agenti di polizia giudiziaria e del ministero della Giustizia), e tra i destinatari dei provvedimenti giudiziari, tutti soggetti la cui fiducia ed il cui rispetto per la qualità e la  funzione magistratuale sono indispensabili per il normale ed efficace funzionamento dell'amministrazione della giustizia” (Sezione Giurisdizionale Campania, sentenza n. 4171/2007).

5. Con riferimento alla quantificazione del danno riconosciuto come sussistente al punto 4.a. che precede, soccorre ancora una volta, con riferimento ai parametri da utilizzare a tal fine, la sentenza n. 10/2003/QM delle Sezioni Riunite, di cui si è fatto dianzi ampio richiamo. Invero, in tale decisione, posta la ricordata differenza tra prova del danno e prova della sua quantificazione, si è affrontato il problema della delimitazione dell’area della risarcibilità sulla base di criteri oggettivi che il giudice deve poter determinare sulla base del diritto positivo, pervenendo, in primo luogo, ad ammettere il “riferimento, oltre che alle spese di ripristino del prestigio leso già sostenute, posto che si dimostrino coerenti con lo scopo perseguito, anche, e sul medesimo presupposto, a quelle ancora da sostenere. In quest’ultimo caso, la valutazione equitativa, ex art. 1226 c.c., dovrà fondarsi su prove anche presuntive od indiziarie. Tra di esse potranno collocarsi le 'perdite assertivamente a carico dell’ente' posto che, in coerenza con quanto detto, esse si riferiscano a conseguenze negative che, per dato di comune esperienza e conoscenza, sulla base di quanto normalmente avviene, siano riferibili al comportamento lesivo dell’immagine e dell’identità della pubblica amministrazione offesa”. Inoltre, le SS.RR. hanno rilevato, sul punto, che “anche i fattori soggettivi ... possono contribuire a quantificare la lesione prodotta così, la delicatezza e la rappresentatività delle funzioni attribuite ad un amministratore o dipendente pubblico comporteranno che esse, se male esercitate, più gravemente si ripercuotano, con negativo effetto, sull’amministrazione, sulla sua immagine e sulla percezione che di essa ne hanno i suoi componenti ed i soggetti nel cui interesse essa opera”.

Orbene, nella concreta fattispecie sussistono una serie di elementi oggettivi e soggettivi che conducono ad una valutazione del danno all'immagine in termini di eccezionale gravità, ovvero: la delicatezza dell'attività svolta dall'amministrazione della giustizia danneggiata (che più di altre ha esigenze di prestigio ed onore, necessitando di un assoluto rispetto da parte degli operatori del settore e della collettività, per potere adeguatamente funzionare);  la posizione funzionale dell'autore dell'illecito (all'epoca non solo magistrato penale, ma preposto all'esercizio delle funzioni di presidenza del collegio in cui era inserito, in qualità di consigliere anziano); la gravità della violazione dei doveri di ufficio (reiterata disponibilità all'aggiustamento di processi estremamente rilevanti, coinvolgenti elevate personalità camorristiche, nonché assidua frequentazione di elementi inseriti agli alti livelli dell'organizzazione criminale); la specifica propalazione della notizia nell'amministrazione di appartenenza del convenuto (essendo i processi di che trattasi celebrati dal convenuto stesso ma anche da suoi colleghi, con partecipazione di personale dell'amministrazione della giustizia).

Parte attrice ha avanzato un’istanza risarcitoria di € 200.000,  che il Collegio ritiene più che equa, anzi estremamente prudenziale, visto che tale somma non si appalesa nemmeno sufficiente a garantire all'Amministrazione della giustizia un adeguato ristoro del danno all'immagine sofferto, alla luce dei criteri “oggettivo”, “soggettivo” e “sociale” elaborati dalla giurisprudenza come parametri per la valutazione di equità ai sensi dell'art. 1226 c.c., dianzi descritti ed analizzati per quanto specificamente concerne la vicenda che qui si esamina.

Pertanto, sulla base delle valutazioni congiunte così esposte, il Collegio ritiene equo un ristoro per il danno all'immagine pari alla somma chiesta dalla Procura, cioè ad €. 200.000.

6. Premesso che deve riconoscersi la sussistenza del rapporto di servizio tra il convenuto e l'amministrazione della giustizia - nella cui organizzazione egli occupava una posizione di grado elevato in quanto magistrato penale – e che è altrettanto incontrovertibile la sussistenza del nesso di causalità tra il grave disdoro dell'immagine della medesima PA e la condotta criminosa tenuta dal dr. ESTI cui il pregiudizio in questione è direttamente ricollegabile - va ulteriormente posta in rilievo la connotazione spiccatamente dolosa di tale condotta, desumibile non solo dall'ampio e dettagliato quadro probatorio della contestata responsabilità emerso in sede penale, ma anche dal comportamento processuale tenuto nella medesima sede dal convenuto; il quale – come osservato nella sentenza n. 7598/05 della C.A. di Roma – ha fatto ricorso a “plurime, reiterate e gravi reticenze” ed addirittura a “false dichiarazioni”.

Nella sentenza n. 7843/08 della stessa Corte d'Appello di Roma – Sezione 2^ Penale (dianzi citata) viene, inoltre, efficacemente osservato, sul punto, che “Il contributo dell'ESTI rafforzò ... l'organizzazione criminale dell'Alfieri. E la rafforzò anche ove nessuno dei suoi tanti interventi per 'aggiustare' processi fosse andato a buon fine. Con quella che, con espressione tratta da Cass. 16493/2005, può ben definirsi la sua 'condotta concretamente auditoria', perché l'ESTI non era solo disponibile ad operare, ma operava a favore di capi e associati al clan camorristico. Perché una condotta concretamente auditoria' che sia tenuta da un magistrato al servizio di un sodalizio criminoso 'rafforza ed esalta il vincolo associativo in maniera esponenziale, dal momento che il sodalizio è riuscito ad acquisire il contributo di un membro dell'istituzione giudiziaria' [Sez. 5, sent. n. 16493 del 2005], si tratti o no, d'un membro direttamente chiamato a giudicare l'associazione illecita. In quanto 'rimosso ... l'estremo argine contro le malefatte del sodalizio criminale' rappresentato dalla 'istituzione giudiziaria' e, per essa, da ogni suo membro, il sodalizio medesimo 'si rinvigorisce della nuova linfa rappresentata dal contributo del magistrato colluso' [sent. ult. cit.]” (pagg. 52-53).

Inoltre, la pronuncia di condanna della C.A. di Roma del 2005 – più volte citata in precedenza e non colpita da statuizione di annullamento della C. Cass. sul punto che qui si esamina - ha conclusivamente affermato che “le delineate condotte criminose del magistrato avevano, altresì, sicuramente prodotto un danno indotto di una gravità e vastità incommensurabile nella misura (enorme, inimmaginabile) in cui determinavano la sfiducia dei cittadini onesti nei confronti della Giustizia, verosimilmente quanto erroneamente ritenuta tutta corrotta, provocando, per reazione, il diffondersi conseguenziale di ulteriore illegalità anche in altre fasce sociali. Né ESTI ha mai dimostrato un minimo di resipiscenza o di pentimento ovvero ha mostrato di rendersi conto delle enormi illiceità commesse, di capirne l'immane disvalore sociale, morale, giuridico, deontologico. Ne consegue che, una volta ritenuta la penale responsabilità, ad una personalità così malignamente degradata non può riconoscersi alcuna attenuante. Congrua e proporzionata alla assoluta gravità e pluralità dei fatti ed alla pessima personalità del reo è la pena fissata in prime cure ...”.

Il Collegio ritiene del tutto condivisibili le valutazioni in termini di evidente dolosità del comportamento di Antonio ESTI espresse dai giudici penali di merito, con la evidente conseguenza che viene riconosciuto incontrovertibilmente sussistente l'elemento soggettivo dell'illecito amministrativo-contabile oggetto del giudizio.

7. Accertati il danno ed il suo nesso causale con i fatti criminosi contestati, e considerato che la natura dolosa della condotta contestata non consente l'applicazione del potere riduttivo (ex art. 83, comma 1°, R.D. 2440/1923 ed art. 52, comma 2°, R.D. 1214/1934), deve condannarsi il convenuto al risarcimento del danno all'immagine nella misura di  € 200.000, così come richiesto dal P.M. in citazione (non essendo consentito al giudice eccedere la domanda attorea - pure verosimilmente affetta da errore di calcolo e sottostimata - ai sensi degli artt. 99 e 112 c.p.c in relazione all'art. 26 R.D.1038/1933); oltre, ovviamente, interessi legali dalla data della domanda al soddisfo come per legge.

In applicazione integrale della regola della soccombenza di cui all'art. 91, 1° comma, c.p.c., le spese di causa devono essere poste integralmente a carico del convenuto, liquidandole come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte de Conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione Campania,

definitivamente pronunciando:

1. RESPINGE l'eccezione di prescrizione;

2. RIGETTA l'istanza di sospensione del giudizio ai sensi dell'art. 295 c.p.c.;

3. CONDANNA Antonio ESTI al pagamento di € 200.000, oltre interessi legali e spese di giustizia, queste ultime liquidate in  €. 343,28**

Così deciso in Napoli, nella camera di consiglio del giorno 30 aprile 2009. 

IL I REF. ESTENSORE                                          IL PRESIDENTE

 (Rossella Cassaneti)                                        (Enrico Gustapane)