REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DEI CONTI
SEZIONE GIURISDIZIONALE PER LA REGIONE
CAMPANIA
composta dai seguenti
magistrati:
dott. Enrico GUSTAPANE Presidente
dott. Federico LUPONE Consigliere
dott. Rossella CASSANETI Primo Referendario relatore
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di responsabilità, iscritto al
n° 58025 del registro di Segreteria,
instaurato a istanza della Procura Regionale della Corte dei Conti per la
Regione Campania nei confronti del signor Antonio ESTI, nato a Napoli il 20.09.1942 e
residente a Bologna in via San Petronio Vecchio n. 37, rappresentato e difeso,
giusta mandato a margine della comparsa di costituzione e risposta depositata
in Segreteria il 10.04.2009, dagli avvocati Nicola Mazzacuva e Francesco
Cardile ed elettivamente domiciliato unitamente ad essi presso lo studio del
primo in Bologna alla via C. D’Azeglio n. 31.
VISTO l’atto di citazione della Procura Regionale
depositato presso questa Sezione Giurisdizionale il 26.03.2008;
VISTA la
memoria di costituzione depositata presso la Segreteria di questa Sezione
Giurisdizionale il 10.04.2009 dalla difesa del sig. Antonio ESTI;
VISTI gli atti di giudizio;
CHIAMATA la causa nella pubblica udienza del giorno 30
aprile 2009, con l’assistenza del segretario dr. Francesca Cerino, sentiti il
relatore primo referendario Rossella Cassaneti, l'avvocato Francesco Cardile ed
il rappresentante del pubblico ministero in persona del Vice Procuratore
Generale dr. Patrizia Coppola Bottazzi;
Ritenuto in
FATTO
Con
atto di citazione depositato presso la Segreteria di questa Sezione in data
26.03.2008 la Procura Regionale ha evocato in giudizio il signor Antonio ESTI,
per sentirlo condannare al pagamento, in favore dell’Amministrazione della
Giustizia, della somma complessivamente determinata in euro 200.000, oltre
interessi legali e spese di giustizia, per il danno non patrimoniale
all’immagine della medesima Amministrazione provocato dal convenuto, all’epoca
dei fatti contestati giudice in servizio presso il Tribunale di Napoli e poi
alla Corte di Appello di Bologna, per aver promesso, in cambio di svariati
benefici (danaro, un viaggio ed un orologio di pregio) il suo intervento e la
sua mediazione in processi, anche non direttamente da lui trattati, a carico di
esponenti del sodalizio camorristico denominato “Nuova Famiglia”, facente capo al boss Carmine Alfieri ed alla
famiglia di Pasquale Galasso.
Per
tali fatti illeciti, consistiti in corruzione in atti giudiziari, il dr. ESTI –
espone la Procura nell’atto introduttivo del giudizio - ha ricevuto condanna
con la sentenza n. 7598/05 del 14.11.2005 della I Sezione penale della Corte
d’Appello di Roma, pronunciata a seguito di rinvio della Corte di cassazione
(sentenza del 04.11.2003), stabilito in definizione del ricorso proposto
avverso la sentenza del Tribunale di Salerno n. 2900/00 del 19.07.2000
(dapprima impugnata innanzi alla Corte di Appello di Salerno, la cui decisione
n. 1229/2002 del 29.11.2002, di assoluzione del dr. ESTI dai fatti delittuosi contestatigli,
è stata cassata con rinvio dalla Suprema Corte in con la sentenza del
04.11.2003).
La
Procura ha evidenziato, in particolare, che pur se la Corte di Cassazione - I
Sezione Penale, con sentenza n. 12903/07, ha annullato con rinvio ad altra
Sezione della stessa Corte di Appello di Roma anche la sentenza n. 7598/05 del
14.11.2005, riscontrandovi dei vizi logico-argomentativi, a rilevare ai fini
del presente giudizio di responsabilità amministrativo-contabile è l’analisi
del quadro già chiaramente delineato dei rapporti con la camorra dei giudici
Antonio ESTI ed Armando Cono Lancuba (coinvolto nel medesimo procedimento
penale e deceduto in data 11.01.2001, cioè prima che si pervenisse ad un
provvedimento giudiziario definitivo nei suoi confronti, da cui l’estinzione
del procedimento pronunciata riguardo alla posizione dello stesso Lancuba con
sentenza predibattimentale n. 636/03 del 04.07.2003 dalla Corte di Appello di
Salerno); tali rapporti hanno provocato allo Stato nel suo complesso – ad
avviso della Procura attrice – un gravissimo danno non patrimoniale,
concretatosi, nella fattispecie, in nocumento all’immagine, alla reputazione ed
alla identità dell’Amministrazione statale, danno-evento da riconoscere come
sussistente e risarcibile anche a prescindere dalla verificazione di danni
patrimoniali. Invero – ha sottolineato ancora il requirente nell’atto
introduttivo del giudizio, in cui ha citato giurisprudenza della S.C. e della Corte Costituzionale – “anche un
comportamento reiterato che configura una rappresentazione non ancora
ufficialmente acclarata con un giudicato penale, ma in tutto corrispondente
alla fattispecie dolosa di reato” può produrre un danno non patrimoniale
all’immagine della P.A.”, non essendo quindi necessario, al fine di riconoscerne
la sussistenza, l’accertamento o addirittura la prospettazione astratta di un
illecito penale per contestare il danno morale patito dallo Stato.
Per
la vicenda oggetto del giudizio la Procura Regionale ha provveduto a notificare
invito a controdedurre in data 25.10.2007 agli eredi del dr. Lancuba ed in data
31.10.2007 al dr. ESTI, procedendo poi ad archiviazione della vertenza nei
confronti dei primi, anche alla luce delle deduzioni trasmesse dai medesimi
eredi Lancuba, in quanto all’esito del processo penale non è stata accertata,
né riscontrata alcuna traccia documentale del materiale passaggio di denaro o
di altri benefici dall’organizzazione criminosa al de cuius.
Più
specificamente, nella domanda attrice si deduce che il danno esistenziale
consegue, in generale, alla lesione di beni non patrimoniali di rango
costituzionale, fra i quali “vi è senz’altro quello consacrato nell’art. 97 la
cui violazione costituisce vulnus d’immagine per la P.A.”, lesione che
nel caso di specie è avvenuta, sotto il profilo dell’evento, mediante “la
perfetta coincidenza tra agire dell’amministrazione e sua manifestazione
negativa”, dovuta al fatto che i suindicati magistrati – pubblici ufficiali
titolari di alta funzione istituzionale nell’ambito dell’amministrazione della
giusitizia – hanno rappresentato addirittura espressione e simbolo riconosciuto
della forza intimidatrice facente capo alla sanguinaria organizzazione
camorristica Alfieri-Galasso, tutelandone gli interessi dall’interno stesso
delle Istituzioni, in modo da essere a tutti gli effetti considerati referenti
stabili dell’organizzazione e quindi veri e propri partecipi della stessa.
Indipendentemente dal clamore suscitato in sede mediatica, il danno
esistenziale rilevato deriva, ad avviso del requirente, dal fatto che, essendo
notorio l’asservimento dell’amministrazione della giustizia alla tutela di
interessi privati altamente illeciti grazie all’attiva connivenza di soggetti
cui era – per contro - affidata una rilevante funzione di garanzia di legalità,
gli esponenti del clan camorristico, da un lato, agivano nella certezza
dell’impunità, mentre i comuni cittadini, dall’altro lato, erano costretti a
comportarsi in modo tale da “difendersi, tutelarsi, o adeguarsi a tale
sistema”, che tale era stante la stabilità, e non la sporadicità o la mera
occasionalità, dei comportamenti degli alti rappresentanti delle Istituzioni –
quali l’odierno convenuto – intesi a determinare lo svolgimento
dell’amministrazione della giustizia in totale difformità rispetto al modello legale.
In
siffatti casi – osserva ancora la Procura – “l’unica evidenza istruttoria della
lesione all’immagine è il disdoro, la disistima sociale, la reputazione
compromessa”, di modo che “il pregiudizio all’immagine è in re ipsa, ed è ontologicamente legato alla lesione del diritto”
costituzionalmente garantito alla corrispondenza dell’azione amministrativa al
modello delineato dagli artt. 97 e 101 Cost.
Da
ciò, una soluzione squisitamente risarcitoria – non essendo possibile una
soluzione inibitoria consistente nell’”imporre al danneggiante comportamenti
positivi ed in forma specifica” – da basare su di una valutazione equitativa
del danno, che il requirente ha proposto nel suindicato ammontare “avendo a
riferimento parametri di pari dignità,
quali il buon nome dell’istituzione o dell’amministrazione interessata, la
complessità o la dimensione della struttura organizzativa danneggiata ed i
(gravissimi) effetti su di essa del comportamento dannoso, il campo di azione e
il più o meno elevato livello di impatto sociale della sua attività, gli
interessi delle comunità coinvolte”.
Tutto
ciò considerato, la Procura ha concluso chiedendo la condanna del signor
Antonio ESTI nei termini specificati in apertura.
Il
convenuto si è costituito in giudizio con memoria depositata in Segreteria il
10.04.2009, per il tramite dei difensori incaricati avvocati Nicola Mazzacuva e
Francesco Cardile; ha ivi concluso, in via preliminare, per la sospensione del
giudizio in attesa della definitiva conclusione di quello penale tuttora
pendente innanzi alla S.C. e, comunque, per la declaratoria di estinzione per
prescrizione dell’azione di responsabilità amministrativo contabile. Nel
merito, ha chiesto il rigetto della domanda attrice, nonché, in subordine, l’applicazione
di ampio potere riduttivo.
Ha
dedotto, in particolare, la non completa esposizione della vicenda penale che
ha visto coinvolto il dr. ESTI nell’atto introduttivo del giudizio, la
genericità dello stesso in ordine ai fatti contestati al medesimo convenuto e
la sua lacunosità e contraddittorietà in relazione alle stesse contestazioni di
addebito. Ha rilevato, inoltre, il riferimento di queste ultime, a conclusione
delle quali è stato quantificato un danno all’immagine della P.A. del tutto sproporzionato
e senza adeguato sostegno probatorio, soltanto alle statuizioni della pronuncia
del Tribunale di Salerno del luglio 2000, già ampiamente riformata e dunque
superata in sede penale, con la conseguenza della ravvisata opportunità – ed
anzi necessità – di sospendere il giudizio ai sensi dell’art. 295 c.p.c.,
avendo il procedimento penale tuttora pendente ad oggetto i medesimi fatti
sottoposti all’esame della Sezione. In punto di prescrizione, il dr. ESTI ha
evidenziato che l’azione di responsabilità cui è stato sottoposto dovrebbe
essere dichiarata estinta, essendo decorso ben più di un quinquennio tra la
commissione dei fatti ritenuti illeciti – o comunque rispetto alla loro
conoscibilità – e la notifica dell’atto di citazione ed essendo inidonei ad
interrompere il termine prescrizionale in parola sia la costituzione di parte
civile – comunque nel caso di specie abbandonata nel 2002 – e sia la notifica
dell’invito a dedurre.
In
data 28.04.2009 la Procura Regionale ha provveduto a depositare presso la
Segreteria della Sezione la sentenza n. 7843/08 della Corte d’Appello di Roma –
Sezione II^ Penale, con la quale nei confronti del convenuto è stato dichiarato
il non luogo a procedere per il delitto di corruzione, essendo il medesimo
estinto per prescrizione, ed ha confermato la condanna per il reato di cui
all’art. 416 bis c.p., riducendo la pena comminatagli dal Tribunale di Salerno
nel 2000 (sentenza n. 2900) ad anni cinque di reclusione.
Alla pubblica udienza
odierna l'avv. Francesco Cardile ha ritenuto di soffermarsi soltanto sulla
preliminare istanza di sospensione del giudizio ai sensi dell’art. 295
c.p.c., in attesa della definizione di quello penale, tuttora in corso, avente
ad oggetto i medesimi fatti dedotti nella presente sede; ha evidenziato, sul
punto, che tali fatti non sono ad oggi acclarati nell'ambito dell'iter processuale
penale, estremamente sofferto sin dall'inizio ed ancora oggi. Ha citato, sul
punto, la sentenza non definitiva – ordinanza n. 108/2009 di questa Sezione
Giurisdizionale, con cui è stata decisa la sospensione del giudizio contabile
in corso in attesa della definizione del processo penale riguardante i medesimi
fatti ivi controversi. Ha concluso insistendo per l’accoglimento dell’istanza
in parola.
Il P.M. di udienza si è espresso sfavorevolmente
all'accoglimento dell'istanza medesima, ritenendo che la pretesa attorea
presenti tutti i requisiti di accoglibilità, per quanto esposto nell'atto
introduttivo del giudizio ed in presenza delle tre sentenze di condanna già
pronunciate in danno di ESTI in sede penale; ha rilevato, sul punto, che la
statuizione assolutoria della C.A. di Salerno del 2002 si è fondata sull'art.
530, 2° comma, c.p.p., cioè non è stata assunta con la formula ampia di cui al
1° comma del medesimo articolo, ma con quella cosiddetta “dubitativa”. Ha
fatto, inoltre, riferimento, al fine di rafforzare l'evidenza dei fatti
produttivi di danno all'immagine, al recente rigetto del ricorso del dr. ESTI
avverso la misura disciplinare cautelare applicatagli dal C.S.M., statuito
dalla Corte di Cassazione.
Considerato in
DIRITTO
1. Il Collegio deve preliminarmente procedere
all'esame dell'eccezione di estinzione per prescrizione dell’azione di
responsabilità esperita dal requirente contabile, sollevata dal convenuto; l'eccezione
in parola si appalesa priva di pregio, per i motivi che di seguito si
espongono.
Preliminarmente, occorre ricordare come il comma 2°
dell'art. 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, disponga che: “il diritto al
risarcimento del danno si prescrive in ogni caso in cinque anni, decorrenti
dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso, ovvero, in caso di
occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta”.
In primo luogo, si deve evidenziare come non
sussista dubbio alcuno circa il fatto che (come si evince pacificamente dalle
sentenze di condanna del dr. ESTI nn. 2900/00 del Tribunale di Salerno – 3^
Sezione Penale, 7598/05
della C.A. di Roma – 1^ Sezione Penale e 7843/08 della C.A. di Roma – 2^
Sezione Penale, nonché perfino dalla sentenza
assolutoria n. 1229/03 della C.A. di Salerno, relative ai fatti di causa) i
comportamenti lesivi dell’immagine dell’Amministrazione giudiziaria de quo siano stati posti in essere in
maniera occulta, avendo il convenuto agito allo scopo non solo di trarre
vantaggio ma anche di occultare la propria attività delittuosa.
Ciò posto, è stato anche da ultimo affermato che “…
la decorrenza del termine di prescrizione non può ritenersi anteriore al
perfezionamento della fattispecie di danno all'immagine che coincide con
l'intervenuto passaggio in giudicato … della sentenza definitiva in sede penale
di condanna dell'odierno convenuto. La verità dei fatti penalmente illeciti,
attribuiti al … è da considerare elemento costitutivo di tale tipo di danno (v. in senso conforme sentenza n. 61/A della
Corte dei conti Sezione d'Appello per la Regione siciliana depositata il 9 marzo 2006)” (Sezione
Giurisdizionale Sicilia, sentenza n. 304/2007).
Tale ultimo orientamento giurisprudenziale, sebbene
non univoco, viene in questa sede ribadito, in quanto non si ritiene di poter
condividere l'impostazione secondo cui, ai fini dell'individuazione del momento
consumativo del danno all'immagine, ci si debba ricondurre al momento della
realizzazione dello “strepitus fori” (pubblicazione dei fatti sui giornali) o
dello “strepitus iudicii” (riconducibile al rinvio a giudizio in sede penale),
configurando la fattispecie di che trattasi un illecito istantaneo, anche se
con effetti permanenti.
Invero, anche la Sezione I d'Appello, con la sentenza
n. 186/2005, ha posto in rilievo “che, comunque, il danno all'immagine deve
avere un dies a quo diverso in
quanto, nel caso, deve valutarsi che, comunque, il clamor fori che caratterizza la fattispecie imputabile ai chiamati
deve considerarsi realizzato successivamente al mero rinvio a giudizio”.
Nel medesimo senso sono orientate anche le sentenze
nn. 2254/2004 della Sezione Giurisdizionale Emilia Romagna, 215/2004 della
Sezione II d'Appello, 2248/2008 di questa Sezione e 97/2009 della Sezione I d'Appello,
solo per citarne alcune a mero titolo esemplificativo.
Da tali precedenti giurisprudenziali è possibile
evincere il principio, che il Collegio intende in questa sede riaffermare,
secondo cui, poiché i fatti addebitati costituiscono reato, va fatta applicazione
del 3° comma dell'art. 2947 c.c., in forza del quale il termine di prescrizione
decorre dalla data in cui la sentenza penale è divenuta irrevocabile. Invero,
la prescrizione non può essere fatta decorrere se non dal momento in cui
l’illecito acquisisce sicura attitudine lesiva per la P.A., cioè dal momento in
cui riceve definizione il procedimento penale inerente il reato che ne
rappresenta la fonte.
Orbene, nel caso all’esame l’ultima sentenza di
condanna, n. 7843/08 della Corte d’Appello di Roma – 2^ Sezione Penale emessa
nei confronti del dr. ESTI, non è ancora divenuta irrevocabile, stante la
pendenza di ricorso innanzi alla Corte di Cassazione (cfr. all. n. 1 al
Fascicolo di parte), di modo che il predetto termine di prescrizione non ha ancora
iniziato a decorrere.
L’eccezione in questione deve pertanto essere
disattesa.
2. In
riferimento alla richiesta sospensione del giudizio di responsabilità in
attesa della definizione del procedimento penale che vede tuttora pendente il
ricorso innanzi alla Corte di Cassazione presentato da Antonio ESTI avverso la
sentenza n. 7843/08 della Corte d'Appello di Roma – 2^ Sezione Penale (che ha
statuito …), si osserva quanto segue.
Al riguardo, il Collegio ritiene necessario
precisare in primo luogo che, in merito ai rapporti tra giudizio penale e
giudizio di responsabilità amministrativo-contabile, quando i due giudizi
vertono sullo stesso soggetto e sullo stesso fatto, è principio ormai pacifico
che il nuovo codice di procedura penale, introdotto nel 1988, ha eliminato
dall’ordinamento non solo l’art. 3 c.p.p., ma anche ogni riferimento ad esso
dal testo novellato dell’art. 295 c.p.c., cosicché deve ritenersi che il nostro
ordinamento non sia più ispirato al principio di pregiudizialità obbligatoria
del processo penale del quale la norma (art. 3 c.p.p.) era espressione.
Pertanto non esiste più, nei rapporti fra i due
giudizi, la c.d. pregiudiziale penale, e i due giudizi si pongono in autonomia
e separatezza fra loro, essendo i reciproci effetti disciplinati nel nuovo
codice nei limiti indicati dall’art. 651 e 652 c.p.p.
Tale principio, affermato per la prima volta dalle
Sezioni Riunite di questa Corte nel 1990 (sent. n. 648 del 5.2.1990), è stato più
volte ribadito anche in epoca recente, per cui può senz’altro sostenersi che
nel sistema del nuovo codice, improntato alla separatezza dei processi, non
esiste un’ipotesi di sospensione necessaria del giudizio di responsabilità
amministrativa in rapporto alla pendenza di un giudizio penale (Cfr. Sez. I
Centr., 24.01.2008 n. 54/A; 23.03.2005 n. 100/A;17.09.2001 n. 266/A; Sez. II
Centr., 10.9.2001 n. 291/A e 16.10.2001 n. 330/A; Sez. III Centr., 19.05.2008
n. 171/A); e difatti, le due ipotesi di sospensione necessaria contemplate nel
terzo comma dell’art. 75 c.p.p. (azione proposta in sede civile dopo la
costituzione di parte civile nel processo penale o dopo la sentenza penale di
primo grado) riguardano esclusivamente il processo civile e, quindi, non potrebbero
trovare applicazione nel giudizio contabile (Sez. II centr., n. 186 del
27.07.1998) .
Tutto ciò ha portato anche all’affermazione della
mancanza di pregiudizialità del processo penale ex art. 295 c.p.c. come
novellato, posto che i fatti a fondamento del processo penale e di quello
amministrativo di danno sono valutabili autonomamente in ragione della distinta
natura del fatto illecito da valutarsi e della diversa sanzione da comminarsi,
facendo stato nel processo contabile l’accertamento dei fatti nei limiti della
loro materialità oggettiva e solo se già accertati con sentenza penale
definitiva di condanna, ai sensi dell’art. 651 c.p.p., in tali limiti essendo
vincolante il processo penale concluso con sentenza irrevocabile prima della
definizione del processo contabile (Sez. I centr., n. 184 del 20.06.2000, Sez.
Lazio, n. 236 del 14.02.2000; Sez.
Lombardia, n. 1551 del 14.12.1999; Sez. Puglia, n. 11 del 15.02.2000).
E’ stato pure sostenuto (Sez. I, n. 250 del
16.07.1991) che, in ragione di quanto precedentemente affermato sulla autonomia
dei due processi, ben può il giudice contabile conoscere e valutare per il
proprio convincimento gli elementi e le prove acquisiti nel procedimento penale
senza dover attendere la pronuncia penale definitiva, soprattutto in presenza
di altri concordanti elementi di valutazione (Sez. I Centr., n. 100 del
23.03.2005; n. 266 del 17.9.2001; Sez. Umbria, n. 34 del 22.1.2001).
Né può sottacersi che, vigente il nuovo testo
dell’art. 295 c.p.c., anche quella parte della giurisprudenza che ritiene
comunque possibile o “opportuna” la sospensione c.d. facoltativa del giudizio
di responsabilità, tuttavia la esclude quando l’impianto probatorio sia già di
per sé sufficiente ai fini del decidere, a prescindere dalla condanna per il
reato contestato (Sez. III centr., 19.05.2008, n.171/A; Sez. I centr.,
14.11.2000 n. 331/A). Nello stesso senso è anche la giurisprudenza della S.C.
di Cassazione (Cass. Civ., n. 7057 del 29.5.2000, n. 6792 del 24.5.2000). In
ogni caso, la Corte Costituzionale con la recente sentenza n. 272/2007 ha
fugato ogni dubbio sulla non necessità della sospensione (Sezione I Appello,
sentenza n. 532/2008).
E, oltretutto, è stato affermato (vedi SS.RR. di
questa Corte, nella sentenza n. 16/QM/1999, indirizzo confermato da ultimo da
Corte di Cassazione n. 12929 del 2007), con specifico riferimento a fattispecie
che - quale quella all’esame – riguardano ipotesi di cd. danno all’immagine,
che sia ammissibile l’autonomo esercizio della giurisdizione sul danno non
patrimoniale in tutte le ipotesi in cui non sussista o non sia stato richiesto
il risarcimento del conseguente danno patrimoniale: “… L’autonoma risarcibilità
discende ex se dal pregiudizio arrecato dall’evento lesivo e discende, altresì,
dal comportamento produttivo di tale evento che abbia comportato la diminuzione
di valore nel patrimonio della struttura pubblica”. In sostanza ciascuna
tipologia di danno è posta a tutela di un diritto che è quello di credito per
il danno patrimoniale diretto mentre per il danno all’immagine è quello
assoluto della personalità. Per essere risarcibile la violazione del diritto
alla personalità deve superare una soglia minima di gravità che, per quanto già
sopra indicato, non è sicuramente segnata dall’esistenza di un reato.
Alla luce dei principi giurisprudenziali ora
menzionati, cui questo Collegio ritiene di poter aderire, consegue che nel caso
all’esame, la Sezione può verificare la sussistenza del solo danno all’immagine
determinato dal comportamento altamente illecito e lesivo dell’immagine della
Pubblica Amministrazione del convenuto, ancorchè non vi sia stato un giudicato
penale di condanna per reato (per le ragioni già esposte in punto di
prescrizione dell’azione di responsabilità amministrativo-contabile) e benché
al medesimo non sia stato contestato alcun danno patrimoniale diretto (Sezione
Giurisdizionale Lazio, sentenza n. 183/2009).
Invero, deve osservarsi che la vicenda all’esame
del Collegio si presenta sufficientemente chiara nella sua realtà fenomenica,
risultando la condotta illecita del signor Antonio ESTI già sufficientemente
delineata e provata da quanto emerge dalle pronunce di condanna emesse in sede
penale.
E difatti, dalla lettura delle rispettive parti
motive si evincono una molteplicità di elementi probatori a conforto delle
accuse mosse all’ESTI, di modo che i fatti lesivi del diritto all’immagine
della PA, nella specie, risultano pienamente acclarati, per quanto oltre si
vedrà, in punto di analisi degli elementi oggettivo e soggettivo dell’illecito
amministrativo-contabile di cui si controverte.
Inoltre, la sentenza non definitiva–ordinanza n.
108/2009 di questa Sezione Giurisdizionale – citata nella pubblica udienza
dall'avv. Francesco Cardile a sostegno della richiesta di sospensione del
giudizio qui esaminata – ha disposto “l'acquisizione, a cura della Procura
Regionale, della sentenza che verrà pronunciata a definizione del giudizio
penale ... attualmente pendente innanzi al ... Tribunale di Napoli”, cioè ha
limitato il supplemento istruttorio alla sola decisione conclusiva del primo
grado di giudizio, in quanto eminentemente riservato all'accertamento del
merito degli illeciti contestati; di modo che il richiamo operato dalla difesa
del convenuto a precedente e recente pronuncia di questa Sezione si appalesa
del tutto inconferente, essendosi nel caso di specie ampiamente concluso il
primo grado del giudizio penale ed essendosi svolto appello alla sentenza
conclusiva di esso per ben tre volte, stanti le pronunce cassatorie della S.C.
Pertanto la richiesta del convenuto, di sospensione
del giudizio per pendenza del processo penale, deve essere respinta.
3. Venendo
all'esame del merito della
fattispecie, il Collegio deve procedere alla verifica della sussistenza, nel
caso concreto, degli elementi tipici della responsabilità amministrativa che,
com’è noto, si sostanziano in un danno patrimoniale, economicamente valutabile,
arrecato alla pubblica amministrazione, in una condotta connotata da colpa
grave o dolo, nel nesso di causalità tra il predetto comportamento e l'evento
dannoso, nonché nella sussistenza di un rapporto di servizio fra coloro che lo
hanno determinato e l'ente che lo ha subito.
4. Con
riferimento all'elemento oggettivo del nocumento patrimoniale, sembra
opportuno premettere alcune osservazioni in ordine all'inquadramento
sistematico del danno oggetto della pretesa risarcitoria dedotta nel presente
giudizio, ovvero del danno all'immagine.
Tale categoria di deminutio non patrimoniale
ha ricevuto un fondamentale arresto, nell'ambito della giurisprudenza contabile
che sino ad allora lo aveva ricollegato alla previsione dell'art. 2059 c.c. (Danni
non patrimoniali: “Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei
casi determinati dalla legge”), con la sentenza
n. 10/2003/QM delle SS.RR. di questa Corte, in cui il danno all'immagine
della PA è stato individuato come danno esistenziale, ovvero come “la forzosa
rinuncia allo svolgimento di attività non remunerative, fonte di compiacimento
o benessere per il danneggiato, perdita non causata da una compromissione
dell’integrità psicofisica”, da configurarsi “come un pregiudizio areddituale
(prescinde dal reddito del danneggiato), non patrimoniale (in quanto non ha ad
oggetto la lesione di beni od interessi patrimoniali), tendenzialmente
omnicomprensivo, in quanto qualsiasi privazione, qualsiasi lesione di attività
esistenziali del danneggiato può dar luogo a risarcimento”.
La risarcibilità – in generale - del danno
esistenziale, quale categoria comprensiva della tradizionale figura del cd.
danno biologico, e del danno all'immagine della PA in particolare è stata
fondata – sempre secondo l'orientamento espresso dalle SS.RR. nella citata
decisione del 2003 - sul disposto dell’art. 2043 c.c. (da ricollegare per il
danno all'immagine che qui rileva alle generali previsioni dell’art. 82 del
r.d. n. 2440 del 1923, dell’art. 52 del r.d. n. 1214 del 1934, dell’art. 18 del
d.p.r. n. 3 del 1957 e delle norme ad esse successive), con la conseguenza che
l’atto non giustificato che, violando un interesse meritevole di tutela secondo
l'ordinamento giuridico, arreca ad altri un danno, costituisce un atto illecito
e obbliga l’autore dell’atto al risarcimento di esso.
Il danno all’immagine della persona giuridica
pubblica s'inquadra in tale contesto tenendo conto dell'emergere,
dall’intervenuta evoluzione del quadro normativo di riferimento, di “una
configurazione della responsabilità amministrativa nella quale trova
collocazione anche la tutela di interessi ulteriori rispetto a quelli della
semplice integrità patrimoniale ma ugualmente fondamentali in una società
moderna, tesa all’efficienza dei propri apparati pubblici, ed espressi dai
principi costituzionali dell’art. 97, 1°e 2° comma, recepiti nella nuova
disciplina dell’agire amministrativo (art. 1, 1° comma legge n. 241 del 1990)”
(SS.RR., sentenza n. 10/2003/QM).
Traendo spunto, cioè, da una rilettura della
nozione e della funzione della responsabilità di diritto comune incentrata su
di una più ampia descrizione della fondamentale norma dell’art. 2043 c.c.
secondo una maggiore attenzione alle esigenze di tutela della collettività, si
perviene “ad una più appropriata configurazione della responsabilità
amministrativa in cui, oltre alla tradizionale funzione recuperatoria e
restauratrice del patrimonio pubblico, occorre tener conto della tutela di quei
sostanziali interessi della collettività che sono di generale rilevanza”.
Il diritto all'integrità dell'immagine della PA,
che trova la propria fonte primaria nelle previsioni degli artt. 2 e 97 Cost. -
di cui il secondo, in particolare, disciplina al 1° comma i principi di
imparzialità e buon andamento dell'agire amministrativo ed al 2° comma postula
la determinazione delle sfere di competenza, attribuzioni e responsabilità
proprie dei funzionari – rappresenta, più specificamente, “il diritto di
realizzarsi e di operare in modo efficace, efficiente, imparziale e trasparente
nei confronti dei propri dipendenti e dei propri amministrati”, di modo che la
lesione di esso “non potrà che consistere nella mancata realizzazione della
specifica finalità perseguita dalla norma di tutela e quindi coincidere con la
violazione della stessa”.
La sentenza n. 10/2003/QM delle SS.RR. in parola,
quindi, ha efficacemente posto in rilievo che “La violazione di questo diritto
all’immagine, intesa come diritto al conseguimento, al mantenimento ed al
riconoscimento della propria identità come persona giuridica pubblica, è
economicamente valutabile. Essa infatti si risolve in un onere finanziario che
si ripercuote sull’intera collettività, dando luogo ad una carente
utilizzazione delle risorse pubbliche ed a costi aggiuntivi per correggere gli
effetti distorsivi che sull’organizzazione della pubblica amministrazione si
riflettono in termini di minor credibilità e prestigio e di diminuzione di potenzialità
operativa”.
Siffatta lesione è stata individuata dalle Sezioni
Riunite, in armonia con le statuizioni poste dalla giurisprudenza della Corte
Costituzionale già con le sentenze n. 184 del 1987 e n. 372 del 1994, come
danno-evento e non come danno-conseguenza, rilevando che la prova
dell’esistenza del documento va ritenuta come offerta in re ipsa in
presenza della violazione del diritto all'immagine della PA e che tale prova va
distinta da quella che concerne l'entità della lesione provocata. “Oggetto del
risarcimento non può che essere una perdita cagionata dalla lesione di una
situazione giuridica soggettiva e la liquidazione del danno non può riferirsi
se non a perdite. A questi limiti soggiace anche la tutela risarcitoria dei
danni non patrimoniali causati dalla lesione di diritti od interessi
costituzionalmente protetti, quale il diritto alla immagine, con la peculiarità
che essa deve essere ammessa, per precetto costituzionale, indipendentemente
dalla dimostrazione di perdite patrimoniali, oggetto del risarcimento essendo
la diminuzione o la privazione di valori inerenti al bene protetto”.
In punto di individuazione dei parametri cui fare
riferimento per la valutazione del danno all'immagine, le Sezioni Riunite hanno
indicato in via esemplificativa “il rilievo e la delicatezza dell’attività
svolta dall’amministrazione pubblica, la ... posizione funzionale dell’autore
dell’illecito, le negative ricadute socioeconomiche (il non poter più fare) sui
componenti dell’amministrazione o sui soggetti da essa amministrati come quelle
derivanti dalla presenza di sistema concussivo idoneo a scoraggiare l’attività
imprenditoriale, la diffusione, la gravità e la ripetitività dei fenomeni di
malamministrazione, la significativa rilevante compromissione dell’efficienza
dell’apparato, la necessità di onerosi interventi correttivi, la negativa
impressione suscitata dal fatto lesivo nell’opinione pubblica per effetto del
clamor fori e/o della risonanza data dai mezzi di informazione di massa (cfr.
sez. Umbria, 4 marzo 1998, n. 252). Si noti sotto quest’ultimo aspetto che il
clamore e la risonanza non integrano la lesione ma ne indicano la dimensione”.
Successivamente – come già posto in rilievo nella
sentenza n. 2247/2008 di questa Sezione Giurisdizionale - la più recente
giurisprudenza della Corte di Cassazione (Sezione Terza Civile n. 12929 del
2007) e della Corte dei Conti (Sezione Seconda Centrale d’Appello n. 234 del
2007 e Sezione Giurisdizionale Regione Lombardia n. 545 del 2007) ha
progressivamente delineato il “danno alla immagine” (in quanto danno alla
funzione pubblica e, quindi, al corretto e diligente esercizio delle attività
intestate dall’ordinamento nel suo complesso – e dalla Costituzione in
particolare – alla Pubblica Amministrazione) come danno risarcibile
indipendentemente dal verificarsi di un danno patrimoniale diretto, inteso come
tradizionale deminutio patrimonii secondo
la previsione del surrichiamato art. 2043 c.c.
Con tale orientamento è stato affinato, in sintonia
con la più accreditata letteratura giuridica – si osserva ancora nella
pronuncia di questa Sezione dianzi citata - un complesso iter esegetico
cristallizzatosi nella prefata pronuncia n. 10/2003/QM delle SS.RR. di questa
Corte, sulla base dei seguenti principi:
1. anche nei confronti della persona giuridica
pubblica o privata – e in generale di un qualsiasi ente esponenziale degli
interessi della collettività – è configurabile la risarcibilità del danno non
patrimoniale (art. 2059 c.c.) quando il fatto lesivo venga a incidere su diritti
fondamentali e inviolabili equivalenti a quelli della persona fisica garantiti
dalla Costituzione;
2. fra tali diritti rientra l’”immagine” della
persona giuridica o dell’ente (arg. ex artt. 2, 3 primo comma e 97 primo comma
Cost.);
3. allorché si verifichi la lesione del’“immagine”,
è risarcibile (oltre al danno patrimoniale, se verificatosi e provato,
attinente anche alla spesa occorsa per il ripristino del bene leso) il danno
non patrimoniale, costituito dalla diminuita considerazione (nel che si esprime
la “immagine” nella sua essenza ontologica) sia all’interno della struttura
amministrativa (profilo della incidenza negativa fra i singoli operatori di
settore) che nell’ambito della comunità sociale (profilo del discredito
proiettato all’esterno);
4. il danno non patrimoniale va liquidato in via
equitativa (art. 1226 c.c.) tenendo conto di più circostanze e, soprattutto,
dell’importo della tangente eventualmente percepita (parametro essenziale,
perché l’entità del denaro ricevuto indica la misura dell’alterazione della
funzione pubblica), dei compiti istituzionalmente assegnati all’autore
dell’illecito e della particolare gravità dei fatti accertati;
5. la valutazione equitativa può essere parametrata
anche alla risonanza mediatica ed al clamor
fori; trattasi, però, di allegazioni non essenziali, in quanto il
discredito avvertito nell’ambito degli interna
corporis è di per sé valido elemento (pur in assenza di eco esterna) ai
fini di una compiuta individuazione del “danno all’immagine”.
Conclusivamente, il “danno all’immagine” deve
considerarsi risarcibile autonomamente e in via equitativa, rispetto al danno
patrimoniale diretto che il medesimo comportamento illecito possa aver causato
alla Pubblica Amministrazione.
Da quanto innanzi osservato, si evince che
l’orientamento espresso nella decisione n. 10/2003/QM delle SS.RR. di questa
Corte dei conti, secondo cui la risarcibilità del danno all’immagine della PA
quale sottocategoria del più ampio danno esistenziale è riconducibile alla
previsione dell’art. 2043 c.c., è stato successivamente integrato alla luce
delle sentenze n. 8827 e 8828 del 31.5.2003 della Corte di Cassazione, in cui
viene prospettata un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art.
2059 c.c., tesa a ricomprendere nell'astratta previsione della norma ogni danno
di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla
persona, ivi incluso il danno derivante dalla lesione di interessi di rango
costituzionale inerenti alla persona stessa. La Corte di Cassazione ha ritenuto
risarcibile il danno non patrimoniale anche in favore delle persone giuridiche,
soggetti per i quali non è ontologicamente configurabile un coinvolgimento
psicologico in termini di patemi d'animo (S.C., sentenza 2367/00).
“Le citate sentenze hanno quindi chiarito che, nel
caso in cui la lesione abbia inciso su un interesse costituzionalmente
protetto, la riparazione mediante indennizzo, ove non sia praticabile quella in
forma specifica, costituisce la forma minima di tutela” (Sezione
Giurisdizionale Lazio, sentenza n. 85/2009).
4.a. Ciò premesso ai fini dell’inquadramento generale
della tipologia d’illecito dedotto nel presente giudizio, si osserva, con
specifico riferimento alla fattispecie concreta all’esame del Collegio, che la
pretesa risarcitoria dedotta dal requirente trae origine dal fatto che in sede
penale sono emersi a carico del convenuto rilevanti profili d’illecito, ai
sensi, in particolare, degli artt. 319-321, nonché 110 e 416 bis, commi
1°-2°-4°-5°, c.p.
Più specificamente, il dr. ESTI – come già
anticipato in premessa - ha ricevuto condanna per i reati previsti dalle
summenzionate disposizioni con le sentenze nn. 2900/00 del Tribunale di Salerno
– 3^ Sezione Penale, 7598/05 della Corte d’Appello di Roma – 1^ Sezione Penale
e 7843/08 della medesima C.A. di Roma – 2^ Sezione Penale (sebbene in
quest’ultima pronuncia si statuisca l’estinzione per prescrizione degli
illeciti corruttivi); la seconda delle sentenze appena citate è stata emessa a
seguito di annullamento con rinvio della sentenza n. 1229/02 della Corte
d’Appello di Salerno, assolutoria per quanto concerne la posizione dell’odierno
convenuto, pronunciato dalla Corte di Cassazione con decisione del 04.11.2003;
la sentenza n. 7598/05 della Corte d’Appello di Roma – 1^ Sezione Penale è
stata a sua volta annullata, con rinvio alla medesima C.A. di Roma, con la
decisione n. 12903/07 della Corte di Cassazione – I Sezione Penale, mentre per
la sentenza n. 7843/08 della C.A. di Roma – 2^ Sezione Penale, emessa proprio a
seguito di tale rinvio, pende ulteriore ricorso innanzi alla S.C.
Dalla lettura delle parti motive delle predette
pronunce, ed in particolare di quella della sentenza n. 2900/00 del Tribunale
di Salerno–3^ Sezione Penale – che ha compiuto l'accertamento di merito dei
fatti illeciti contestati al dr. ESTI rimesso al primo grado di giudizio –
emerge con assoluta chiarezza che l'odierno convenuto, sin dal 1985-1986 (anni
in cui prestava servizio presso il Tribunale di Napoli) ed anche dopo il
22.03.1987 (data a partire dalla quale ottenne il trasferimento presso la Corte
d'Appello di Bologna), assumeva una condotta “inquadrabile nell'ipotesi di
concorso esterno nell'associazione” di stampo camorristico ‘Nuova Famiglia'
facente capo ad ALFIERI Carmine”, poiché si presentava chiaramente come “un
soggetto disponibile ad assecondare, con la prospettiva di sostanziose
contropartite economiche, anche i disegni di pericolosi e sanguinari criminali,
promettendo interventi in vicende giudiziarie che li riguardavano, da
effettuare direttamente o attraverso terzi. A ciò certo si deve aggiungere che
l'ESTI ha avuto rapporti di contiguità, se non di strettissima frequentazione
con esponenti apicali dell'organizzazione facente capo all'ALFIERI”, quale
Antonio Malvento, o comunque ad essa affiliati, come Matteo Sorrentino,
Giuseppe Cillari, Matilde Ciarlante e Giuseppe Apreda, “rapporti protrattisi,
per quanto riguarda il Malvento, sino all'immediata vigilia della sua morte”
(ordinata dallo stesso Carmine Alfieri per il venir meno della fiducia nei suoi
confronti) “e per ciò che attiene all'Apreda sino a poco prima del suo
arresto”. Il Tribunale ha conclusivamente osservato che “gli accertati rapporti
dell'ESTI con l'associazione ... assumono ... sicuro rilievo sub specie di
concorso esterno, in quanto sintomatici della disponibilità dell'imputato ad
offrire un contributo finalisticamente orientato a garantire l'esistenza o a
determinare il rafforzamento del sodalizio criminoso … Innegabile è quindi la
soggettiva e oggettiva attitudine dell'apporto assicurato dall'ESTI ad influire
sulla realtà associativa, contribuendo al suo mantenimento, se non addirittura
al suo consolidamento, donde il suo pieno coinvolgimento sul terreno della
responsabilità penale come concorrente esterno in associazione camorristica”.
“Anche la semplice garanzia d'intervento” - si osserva ancora nella sentenza n.
2900/00 del Tribunale di Salerno - “anche se poi non concretamente seguita da
un effettivo intervento, si traduce, d'altro canto, in un innegabile
rafforzamento della spinta delinquenziale, posto che il radicato e ragionevole
convincimento che, in caso di necessità, l'istituzione, dal suo interno, è
pronta e disponibile ad esercitare in maniera distorta la sua funzione
repressiva, per l'infedeltà di un suo rappresentante, induce fatalmente, se non
ad incrementare, certamente a non desistere dalle attività criminali tipiche
della consorteria camorristica, venendo meno il potere deterrente della
sanzione che può derivare solo dalla previsione di un corretto ed incisivo
esercizio delle funzioni repressive” (pagg. da 349 a 353 della decisione n.
2900/00 del Tribunale di Salerno).
Appare evidente la rilevanza delle conclusioni cui
il Tribunale di Salerno pervenne nel 2000 nell'analizzare la condotta delittuosa
dell'odierno convenuto, ai fini della configurabilità nel caso all'esame della
sezione del danno all'immagine della PA, in termini sia d’incidenza negativa
nei confronti degli operatori del settore (amministrazione della giustizia) e
sia di consistente discredito della relativa azione fra gli utenti esterni.
Tale rilevanza è, poi, ulteriormente rafforzata da quanto osservato a pagina
358 della sentenza in parola, ove si evidenzia che “in tal modo
l'organizzazione si convinse di poter contare sull'apporto di una persona, che
all'occorrenza, o direttamente, o sfruttando le amicizie che aveva con i
colleghi, era in grado di pilotare le decisioni di importanti processi a carico
anche di esponenti di primo piano del sodalizio o addirittura del suo capo, adottando
od ottenendo soluzioni processuali favorevoli”.
In punto di analisi circa la sussistenza a carico
del dr. ESTI dell'illecito corruttivo, il Tribunale di Salerno ha, inoltre,
osservato (a pagina 363) quanto segue. “Se con il Malvento sono stati stretti
legami tanto saldi, da accettare la sua compagnia e le sue offerte nel comune
soggiorno a Santo Domingo e da ipotizzare un suo contributo economico
nell'acquisto di un immobile, se analoghi rapporti sono stati stabiliti con
l'Apreda anche in vista di viaggi e crociere gratuitamente offerti su lussuose
imbarcazioni, a tacere dello specifico episodio della Mercedes, se con
riferimento al lungo soggiorno preso l'hotel Castelsandra di proprietà di
personaggio collegato all'ALFIERI non vi è traccia alcuna di pagamento, così
come non vi è traccia del versamento di somme di danaro per la locazione
dell'immobile di Casoria, allora acquista definitiva e sicura credibilità il
narrato dell'ALFIERI allorché ha attribuito all'imputato di avere accettato
anche l'orologio ed i dollari quale ricompensa per la promessa di intervento a
suo favore nella vicenda 'de qua' e per il successivo dichiarato
interessamento”. Conseguentemente, il Tribunale di Salerno ha riconosciuto come
sussistente la responsabilità di ESTI anche per il reato di corruzione propria
antecedente.
Sia il sostanziale appoggio esterno
all'organizzazione malavitosa facente capo a Carmine ALFIERI mediante
l'esercizio fortemente distorto della propria funzione istituzionale e sia la
ricezione da parte di ESTI delle dazioni dianzi sintetizzate in contropartita
di ciò, sono state ritenute ampiamente e congruamente provati dal giudice di
prime cure, sulla base delle dichiarazioni, rese anche in sede dibattimentale,
di vari collaboratori di giustizia, che “hanno superato il controllo di
attendibilità intrinseca” ed “hanno ricevuto anche il conforto di dati esterni
qualificanti e ... del tutto rassicuranti”, quali, ad esempio, le dichiarazioni
convergenti di altri collaboratori, primo fra tutti Pasquale GALASSO, la cui
testimonianza su fatti appresi nell'ambito del sodalizio, stante la sua
posizione di vertice nella relativa scala gerarchica, non può mai considerarsi,
ad avviso del Collegio giudicante in primo grado, “de relato”, poiché si tratta
“di un patrimonio conoscitivo derivante da un flusso circolare di notizie dello
stesso genere di quello che si produce, di regola in ogni organismo
associativo, relativamente ai fatti di interesse comune, donde la pregnanza e
la rilevanza, sotto il profilo probatorio, della dichiarazione, anche se
relativa a fatti non caduti sotto la diretta percezione del segnalante” (pagina
361 della sentenza n. 2900/00 del Tribunale di Salerno).
Sempre con riferimento al profilo probatorio, nella
prefata decisione si osserva ancora che “D'altro canto, al di là delle
dichiarazioni dei collaboratori, è l'intero contesto probatorio che conclama il
coinvolgimento dell'ESTI nelle vicende oggetto di esame. La sua assidua
frequentazione con il Malvento, ... i suoi contatti con altri personaggi gravitanti
nell'orbita della consorteria facente capo all'ALFIERI, quali Cillari Giuseppe,
Sorrentino Matteo, Apreda Giuseppe, Romano Luigi, la sua disponibilità, data o
richiesta ad intervenire in vicende giudiziarie riguardanti alcuni di tali
personaggi (vedi la segnalazione al Di Mauro per il procedimento relativo alle
misure di prevenzione nei confronti della famiglia Sorrentino, l'interessamento
promesso al Malvento per il procedimento riguardante i suoi congiunti, o la
richiesta d'intervento a favore del GALASSO nel procedimento relativo alle
estorsioni in danno dei contadini di Poggiomarino) compongono, nel loro
insieme, un quadro ampiamente significativo di come l'ESTI intendesse il suo
ruolo, di come fosse disponibile a svenderlo, cedendo probabilmente alle
lusinghe della modalità e della vita agiata e brillante, fino a legarsi a
personaggi di conclamato spessore criminale” (pagina 363 della sentenza n.
2900/00 del Tribunale di Salerno)”.
Risulta, quindi, di tutta evidenza l'efficacia
lesiva dell'immagine dell'amministrazione della giustizia esplicata dalle
condotte assunte dal dr. ESTI nella seconda metà degli anni ottanta attraverso
l'appoggio, promesso o fornito, a vari rappresentanti dell'organizzazione
camorristica denominata Nuova Famiglia nell'ambito di procedimenti giudiziari
che li riguardavano, condotte accertate, del resto, attraverso riscontri
probatori di tutto rispetto, precedentemente ricordati, fra i quali assumono
particolare rilievo, ad avviso del Collegio, le dichiarazioni rese in sede dibattimentale
dal giudice del Tribunale di Napoli – Sezione Misure e Prevenzione Umberto Di
Mauro e dal P.M. Alessandro Pagano, preposti nelle rispettive funzioni al
procedimento di applicazione di misure di prevenzione che nel periodo in
considerazione (1985-86) riguardò membri della famiglia Sorrentino; le
dichiarazioni di che trattasi, invero, sono risultate convergenti circa la
segnalazione fatta da Antonio ESTI ad Umberto Di Mauro (su cui questi riferì
prontamente, a causa della gravità del fatto, ai colleghi della Procura
procedenti Alessandro Pagano e Luciano D'Emmanuele), con cui viaggiava sulla
medesima automobile di servizio, in ordine alla serietà ed affidabilità degli
imprenditori Sorrentino, che egli ben conosceva personalmente, rappresentando,
dunque, al collega un particolare interessamento al “buon esito” della
procedura di prevenzione che li riguardava.
La veridicità e l'elevato contenuto illecito di
tali condotte hanno, poi, ricevuto piena conferma nella sentenza n. 7598/05
della Corte d'Appello di Roma-Sezione 1^ penale – pronunciata a seguito di
annullamento con rinvio, disposto dalla Corte di Cassazione con decisione del
04.11.2003, della sentenza assolutoria n. 1229/03 della Corte d'Appello di
Salerno, ritenuta affetta da vizio di motivazione, grave travisamento di vari
elementi di fatto, rilevanti errori di diritto e di valutazione – in cui i
fatti in questione vengono nuovamente e dettagliatamente analizzati, con
“condivisione piena della motivazione dei primi giudici, quale espressa da
pagina 311 a 363 della sentenza, nonché in tutti gli altri passaggi che
richiamano le varie 'condotte' censurabili e/o penalmente rilevanti del reo ...
motivazione da considerarsi qui riportata e fatta propria da questa Corte per
relationem”, pur con i necessari rafforzamenti della motivazione medesima,
“nel rispetto del principio stabilito dal giudice di legittimità (e
perfettamente condivisibile) secondo cui è necessario valutare in termini
complessivi e nella sua globalità l'intero materiale probatorio a disposizione,
... il tutto evitando di cadere nella già censurata, perché altamente deviante,
valutazione atomistica di ciascun episodio in sé considerato, avulso dal
contesto generale del complesso delle condotte illecite poste in essere dal
prevenuto (magari col medesimo modus operandi) in un lungo arco di
tempo, prescindendo dalle circostanze di tempo e di luogo ed in particolare
dalle spiccate caratteristiche soggettive (di natura altamente delinquenziale)
degli interlocutori del reo; la valutazione atomistica comporta e consente,
infatti, una interpretazione riduttiva di ciascun episodio in sé considerato,
come se fosse l'unico esistente, evitando di porre doverosamente l'esame sulle
plurime connessioni soggettive ed oggettive tra analoghe e plurime condotte
illecite precedenti e successive, laddove la valutazione complessiva dell'agire
del soggetto, prolungato nel tempo ed in favore di soggetti tra loro
strettamente collegati in consorteria criminosa, consente di avere un quadro
d'insieme che permette di valutare anche ai fini dell'agire illecito o anche
semplicemente anomalo del reo e di individuare – conseguentemente – l'elemento
psicologico unitario ed unificante i vari episodi”.
La sentenza in esame, che si conclude con
statuizioni di piena condanna a carico di ESTI, fornisce, poi, una serie di
rilevanti elementi valutativi in punto di elemento psicologico dell'illecito,
di notevole ausilio anche nella presente sede, di cui si dirà oltre, cioè
proprio nell'esame dell'elemento psicologico della contestata responsabilità
amministrativo-contabile.
D'altra parte, la stessa sentenza n. 1229/03 della
Corte d'Appello di Salerno ha riconosciuto – come si evince dalla lettura della
parte motiva della decisione cassatoria del 04.11.2003 della S.C. - esservi prova
di frequentazioni da parte di ESTI con esponenti della Nuova Famiglia, di
interessamento per alcuni processi e di benefici economici sui quali la prova
da parte del magistrato di aver pagato autonomamente è lacunosa, salvo, poi,
ritenere “non esservi prova di un rapporto sinallagmatico tra tali benefici e
specifici fatti d'interessamento” e sottolineare la mancanza di prova in merito
al fatto che “l'ESTI si fosse adoperato a favore del sodalizio criminoso nei
casi in cui egli stesso era giudice incaricato di trattare procedimenti contro
gli affiliati all'associazione camorristica”.
Nel censurare la pronuncia della C.A. di Salerno
appena citata, la S.C. ha osservato, in particolare, che la “Corte d'Appello
non ha fatto buon governo delle risultanze processuali ed è fondata la censura
di violazione del disposto dell'art. 192, comma 3, c.p.p.”, in quanto ha
“omesso di considerare che il concorso nel reato di associazione a delinquere
di stampo mafioso si realizza con qualsiasi condotta che si traduca in un contributo
al raggiungimento dei fini dell'associazione, sì che l'esistenza di vantaggi
percepiti rappresenta un elemento di prova del rapporto instaurato, ma non è un
elemento costitutivo della condotta illecita. Ne deriva che ... il nesso
sinallagmatico tra la prestazione fornita ed i vantaggi percepiti ... mantiene
la sua rilevanza anche quando ... vantaggi e favori ricevuti condizionano la
libertà di autodeterminazione del soggetto e lo spingono a porre in essere gli
interventi funzionali alle esigenze dell'associazione camorristica”.
La Corte d'Appello di Roma – Sezione 2^ Penale, che
si è pronunciata con la sentenza n. 7843/08 a seguito dell'annullamento con
rinvio ad altra Sezione della decisione n. 7598/05 della medesima C.A. statuito
dalla I Sez. Penale della C. Cass.,
ricostruendo ancora una volta i fatti addebitati al dr. ESTI, ha
sostanzialmente confermato la validità del quadro probatorio già acquisito e
descritto nel primo grado di giudizio svoltosi innanzi al Tribunale di Salerno,
negando l'idoneità a riscontrare le dichiarazioni di Carmine Alfieri soltanto
ad alcune affermazioni de relato del collaboratore di giustizia Pasquale
Galasso e riconoscendo per contro la desumibilità della fondatezza dell'impianto
accusatorio da tutti gli altri disponibili elementi di riscontro; il predetto
giudice di seconde cure, dunque, ha osservato che dal menzionato (articolato)
quadro probatorio emerge “come l'imputato avesse una costante disponibilità ad
'aggiustare' processi in favore di appartenenti alla camorra, ricercando e
ricavandone, in cambio, indebite utilità” e che la condotta complessivamente
tenuta dal dr. ESTI “dimostra una spiccata attitudine ad instaurare rapporti
con individui che contino, quale che ne sia il campo d'azione, criminale o
istituzionale, occulto o palese”, con la conseguenza di un elevatissimo livello
di compromissione con la camorra, dimostrata in modo evidente anche dalla
lettura della lettera indirizzata ad Armando Cono Lancuba, rinvenuta durante la
perquisizione effettuata presso l'abitazione di ESTI, in cui questi chiedeva al
collega di non rivelare a “Tonino” (Antonio) Malvento che lo stesso ESTI non
aveva effettuato nei confronti di Lancuba, per dimenticanza, il promesso intervento
per l'aggiustamento del processo riguardante il padre ed il fratello del
Malvento. Quindi, dettagliatamente descritta la validità e la rilevanza degli
acquisiti elementi di prova ai sensi dell'art. 192, 3° comma, c.p.p., la C.A.
di Roma ha concluso, nella pronuncia del 2008, nel senso che “il delitto di
corruzione come ascritto risulta quindi provato al di là di ogni ragionevole
dubbio”, pur essendo estinto per prescrizione, mentre per quel che concerne il
reato di concorso esterno in associazione mafiosa – per il quale ha reiterato
la pronuncia di condanna precedentemente irrogata - ha svolto le rilevanti
osservazioni che si riportano. “Poiché un magistrato che stabilisce rapporti
diretti col capo stesso di un sodalizio criminale, che si adopera per 'aggiustare'
un processo a suo carico, non può non essere consapevole di – e non volere che
– rafforzare il sodalizio medesimo. Per il legame indissolubile che v'è tra la
forza del capo e quella dell'associazione al cui vertice lo stesso si colloca.
Perché un magistrato che, dopo essersi adoperato per 'aggiustare' un processo a
carico del capo di un'associazione camorristica, si adoperi per aggiustare
processi a carico ora di questo ora di quell'esponente di spicco
dell'associazione stessa, a seconda che – e per come – ne venga richiesto,
intende, evidentemente, favorire tutti gli associati e, dunque, l'associazione
in quanto tale. E l'organizzazione criminale, che l'ESTI intese favorire, si
rafforzò grazie al suo contributo”.
Orbene, i fatti posti in essere dal dr. ESTI, dai
quali è derivata grave e reiterata lesione del diritto all'immagine della PA,
possono dirsi, ad avviso del Collegio, ormai senz'altro accertati, poiché,
anche se la sentenza n. 7598/05 della C.A. di Roma è stata annullata con rinvio
con la decisione resa dalla Corte di Cassazione-I Sezione Penale in data
07.12.2006, mentre per la sentenza n. 7843/08 della medesima Corte d'Appello
pende tuttora ricorso innanzi al giudice di legittimità, è altrettanto vero che
l'annullamento della sentenza d'appello del 2005 è stato disposto in quanto
dalla lettura della relativa parte motiva non emergono con chiarezza “i canoni
ermeneutici impiegati per affermare la configurabilità nel caso di specie del
concorso nel delitto associativo, non essendo stato affatto precisato se le
condotte attribuite agli imputati abbiano avuto rilevanza causale costituendo
'condizione necessaria' ai fini della sopravvivenza e del rafforzamento della
struttura associativa”, canoni abbisognevoli di specifica precisazione – ad avviso
della Corte di Cassazione autrice dell'annullamento in parola - in applicazione
dei principi posti dalle cc.dd. sentenze Carnevale e Mannino.
D'altra parte, per quanto concerne i motivi di
ricorso addotti dal dr. ESTI avverso la sentenza n. 7843/08 della Corte
d'Appello di Roma-2^ Sezione Penale, va posto in evidenza che i rilievi in esso
svolti, che intendono evidenziare la contraddittorietà-illogicità della
motivazione dell'impugnata pronuncia di condanna, investono aspetti più formali
che sostanziali e forniscono una prospettazione fattuale degli illeciti, per
cui è stata pronunciata per l'ennesima volta condanna nei confronti del dr.
ESTI, diversa da quella più volte descritta dalle sentenze di che trattasi ma
non adeguatamente sostenuta da argomentazioni tecnico-giuridiche di qualche
spessore.
Ad ulteriore conferma della chiarezza del quadro
fattuale della vicenda che ha originato il presente giudizio, soccorre – come
giustamente posto in evidenza dal P.M. di udienza – la decisione del 13.05.2008
delle SS.UU. Civili della Corte di Cassazione, con cui è stato dichiarato
inammissibile (perché proposto tardivamente) il ricorso presentato da ESTI
avverso l'ordinanza della Sezione Disciplinare del 06.07.2007, con cui era
stata rigettata l'istanza dell'interessato di revoca della sospensione dalle
funzioni e dallo stipendio, irrogata con provvedimento del 13.06.2006. Di
particolare rilievo, invero, sono le osservazioni svolte in tale ordinanza di
reiezione, riportate nella pronuncia d'inammissibilità delle SS.UU. Civili
della S.C., secondo cui “la contiguità del magistrato ad ambienti criminali è
di per sé idonea a minarne il prestigio indipendentemente dalla strumentalità
della condotta rispetto al rafforzamento dell'associazione” ed inoltre “dagli
atti ... emergevano circostanze, in parte oggettivamente riscontrate (come i
viaggi e i contatti telefonici, i soggiorni alberghieri) e in parte
riconosciute dallo stesso incolpato (come le conoscenze e le frequentazioni con
alcune delle persone risultate sicuramente organiche ad organizzazioni
criminali), che assumevano rilievo disciplinare a prescindere dalla loro
valenza quale indici di partecipazione esterna all'associazione mafiosa, per la
cui sussistenza sono necessari ulteriori requisiti oggettivi e soggettivi”. La
medesima Sezione disciplinare, secondo quanto riportato nella prefata decisione
del 2008 delle SS.UU. Civ. della S.C., ha inoltre evidenziato che “tali
circostanze si connotavano inoltre per caratteristiche di gravità tale da
legittimare anche a distanza di tempo, per la radicale compromissione della
figura professionale dell'incolpato, l'adozione di una misura cautelare”,
concludendo nel senso che le ragioni dell'annullamento della sentenza n.
7598/05 della C.A. di Roma, pronunciato dalla C. Cass. nel 2006 “non apparivano
tali da escludere la materialità dei fatti sui quali anche in precedenza il
giudice disciplinare aveva fondato decisioni di analogo contenuto”.
Per quanto si qui osservato, deve concludersi nel
senso che i fatti illeciti precedentemente descritti, ampiamente acclarati in
sede penale, costituiscono senz'altro lesione dell'immagine
dell'amministrazione della giustizia.
Invero, “il danno al prestigio dell'amministrazione
deve ritenersi consumato anche a prescindere dalla diffusione a mezzo stampa
della notizia dell'indagine e della condanna penale (c.d. 'clamor fori': cfr.
in tal senso SS.RR. 10/QM/2003), in quanto la credibilità di un soggetto viene lesa anche qualora la
vicenda disonorevole venga a conoscenza non di una collettività indifferenziata
ma solo della cerchia delle persone più direttamente in contatto con lui, le
quali costituiscono il contesto sociale in cui tale persona opera e vive, la
stima delle quali è per il soggetto più importante di quella di sconosciuti.
Nella concreta fattispecie, sia per la normale pubblicità del processo penale
tenutosi, sia per la gravità del fatto, sia per la funzione esercitata dal reo
deve presumersi avvenuta la propagazione della notizia nel più ristretto ambito
dei soggetti a vario titolo coinvolti nell'amministrazione danneggiata; nella
fattispecie, tra i colleghi del
convenuto (magistrati), tra i collaboratori del personale di magistratura
(funzionari, impiegati, agenti di polizia giudiziaria e del ministero della
Giustizia), e tra i destinatari dei provvedimenti giudiziari, tutti soggetti la
cui fiducia ed il cui rispetto per la qualità e la funzione magistratuale sono indispensabili
per il normale ed efficace funzionamento dell'amministrazione della giustizia”
(Sezione Giurisdizionale Campania, sentenza n. 4171/2007).
5. Con
riferimento alla quantificazione del danno riconosciuto come sussistente
al punto 4.a. che precede, soccorre
ancora una volta, con riferimento ai parametri da utilizzare a tal fine, la
sentenza n. 10/2003/QM delle Sezioni Riunite, di cui si è fatto dianzi ampio
richiamo. Invero, in tale decisione, posta la ricordata differenza tra prova
del danno e prova della sua quantificazione, si è affrontato il problema della
delimitazione dell’area della risarcibilità sulla base di criteri oggettivi che
il giudice deve poter determinare sulla base del diritto positivo, pervenendo,
in primo luogo, ad ammettere il “riferimento, oltre che alle spese di
ripristino del prestigio leso già sostenute, posto che si dimostrino coerenti con
lo scopo perseguito, anche, e sul medesimo presupposto, a quelle ancora da
sostenere. In quest’ultimo caso, la valutazione equitativa, ex art. 1226 c.c.,
dovrà fondarsi su prove anche presuntive od indiziarie. Tra di esse potranno
collocarsi le 'perdite assertivamente a carico dell’ente' posto che, in
coerenza con quanto detto, esse si riferiscano a conseguenze negative che, per
dato di comune esperienza e conoscenza, sulla base di quanto normalmente
avviene, siano riferibili al comportamento lesivo dell’immagine e dell’identità
della pubblica amministrazione offesa”. Inoltre, le SS.RR. hanno rilevato, sul
punto, che “anche i fattori soggettivi ... possono contribuire a quantificare
la lesione prodotta così, la delicatezza e la rappresentatività delle funzioni
attribuite ad un amministratore o dipendente pubblico comporteranno che esse,
se male esercitate, più gravemente si ripercuotano, con negativo effetto,
sull’amministrazione, sulla sua immagine e sulla percezione che di essa ne
hanno i suoi componenti ed i soggetti nel cui interesse essa opera”.
Orbene, nella concreta fattispecie sussistono una
serie di elementi oggettivi e soggettivi che conducono ad una valutazione del
danno all'immagine in termini di eccezionale gravità, ovvero: la delicatezza
dell'attività svolta dall'amministrazione della giustizia danneggiata (che più
di altre ha esigenze di prestigio ed onore, necessitando di un assoluto
rispetto da parte degli operatori del settore e della collettività, per potere
adeguatamente funzionare); la posizione
funzionale dell'autore dell'illecito (all'epoca non solo magistrato penale, ma
preposto all'esercizio delle funzioni di presidenza del collegio in cui era
inserito, in qualità di consigliere anziano); la gravità della violazione dei
doveri di ufficio (reiterata disponibilità all'aggiustamento di processi
estremamente rilevanti, coinvolgenti elevate personalità camorristiche, nonché
assidua frequentazione di elementi inseriti agli alti livelli
dell'organizzazione criminale); la specifica propalazione della notizia
nell'amministrazione di appartenenza del convenuto (essendo i processi di che
trattasi celebrati dal convenuto stesso ma anche da suoi colleghi, con
partecipazione di personale dell'amministrazione della giustizia).
Parte attrice ha avanzato un’istanza risarcitoria
di € 200.000, che il Collegio ritiene
più che equa, anzi estremamente prudenziale, visto che tale somma non si
appalesa nemmeno sufficiente a garantire all'Amministrazione della giustizia un
adeguato ristoro del danno all'immagine sofferto, alla luce dei criteri
“oggettivo”, “soggettivo” e “sociale” elaborati dalla giurisprudenza come
parametri per la valutazione di equità ai sensi dell'art. 1226 c.c., dianzi
descritti ed analizzati per quanto specificamente concerne la vicenda che qui
si esamina.
Pertanto, sulla base delle valutazioni congiunte
così esposte, il Collegio ritiene equo un ristoro per il danno all'immagine
pari alla somma chiesta dalla Procura, cioè ad €. 200.000.
6. Premesso che deve riconoscersi la sussistenza del rapporto
di servizio tra il convenuto e l'amministrazione della giustizia - nella cui
organizzazione egli occupava una posizione di grado elevato in quanto
magistrato penale – e che è altrettanto incontrovertibile la sussistenza del
nesso di causalità tra il grave disdoro dell'immagine della medesima PA e la
condotta criminosa tenuta dal dr. ESTI cui il pregiudizio in questione è
direttamente ricollegabile - va ulteriormente posta in rilievo la connotazione
spiccatamente dolosa di tale condotta, desumibile non solo dall'ampio e
dettagliato quadro probatorio della contestata responsabilità emerso in sede
penale, ma anche dal comportamento processuale tenuto nella medesima sede dal
convenuto; il quale – come osservato nella sentenza n. 7598/05 della C.A. di Roma
– ha fatto ricorso a “plurime, reiterate e gravi reticenze” ed addirittura a
“false dichiarazioni”.
Nella sentenza n. 7843/08 della stessa Corte
d'Appello di Roma – Sezione 2^ Penale (dianzi citata) viene, inoltre, efficacemente
osservato, sul punto, che “Il contributo dell'ESTI rafforzò ...
l'organizzazione criminale dell'Alfieri. E la rafforzò anche ove nessuno dei
suoi tanti interventi per 'aggiustare' processi fosse andato a buon fine. Con
quella che, con espressione tratta da Cass. 16493/2005, può ben definirsi la
sua 'condotta concretamente auditoria', perché l'ESTI non era solo
disponibile ad operare, ma operava a favore di capi e associati al clan camorristico.
Perché una condotta concretamente auditoria' che sia tenuta da un
magistrato al servizio di un sodalizio criminoso 'rafforza ed esalta il
vincolo associativo in maniera esponenziale, dal momento che il sodalizio è
riuscito ad acquisire il contributo di un membro dell'istituzione giudiziaria' [Sez.
5, sent. n. 16493 del 2005], si tratti o no, d'un membro direttamente chiamato
a giudicare l'associazione illecita. In quanto 'rimosso ... l'estremo argine
contro le malefatte del sodalizio criminale' rappresentato dalla 'istituzione
giudiziaria' e, per essa, da ogni suo membro, il sodalizio medesimo 'si
rinvigorisce della nuova linfa rappresentata dal contributo del magistrato
colluso' [sent. ult. cit.]” (pagg. 52-53).
Inoltre, la pronuncia di condanna della C.A. di
Roma del 2005 – più volte citata in precedenza e non colpita da statuizione di
annullamento della C. Cass. sul punto che qui si esamina - ha conclusivamente
affermato che “le delineate condotte criminose del magistrato avevano, altresì,
sicuramente prodotto un danno indotto di una gravità e vastità incommensurabile
nella misura (enorme, inimmaginabile) in cui determinavano la sfiducia dei
cittadini onesti nei confronti della Giustizia, verosimilmente quanto
erroneamente ritenuta tutta corrotta, provocando, per reazione, il diffondersi
conseguenziale di ulteriore illegalità anche in altre fasce sociali. Né ESTI ha
mai dimostrato un minimo di resipiscenza o di pentimento ovvero ha mostrato di
rendersi conto delle enormi illiceità commesse, di capirne l'immane disvalore
sociale, morale, giuridico, deontologico. Ne consegue che, una volta ritenuta
la penale responsabilità, ad una personalità così malignamente degradata non
può riconoscersi alcuna attenuante. Congrua e proporzionata alla assoluta
gravità e pluralità dei fatti ed alla pessima personalità del reo è la pena
fissata in prime cure ...”.
Il Collegio ritiene del tutto condivisibili le
valutazioni in termini di evidente dolosità del comportamento di Antonio ESTI
espresse dai giudici penali di merito, con la evidente conseguenza che viene
riconosciuto incontrovertibilmente sussistente l'elemento soggettivo
dell'illecito amministrativo-contabile oggetto del giudizio.
7. Accertati
il danno ed il suo nesso causale con i fatti criminosi contestati, e
considerato che la natura dolosa della condotta contestata non consente
l'applicazione del potere riduttivo (ex art. 83, comma 1°, R.D. 2440/1923 ed
art. 52, comma 2°, R.D. 1214/1934), deve condannarsi il convenuto al
risarcimento del danno all'immagine nella misura di € 200.000, così come richiesto dal P.M. in
citazione (non essendo consentito al giudice eccedere la domanda attorea - pure
verosimilmente affetta da errore di calcolo e sottostimata - ai sensi degli
artt. 99 e 112 c.p.c in relazione all'art. 26 R.D.1038/1933); oltre,
ovviamente, interessi legali dalla data della domanda al soddisfo come per
legge.
In applicazione integrale della regola della
soccombenza di cui all'art. 91, 1° comma, c.p.c., le spese di causa devono
essere poste integralmente a carico del convenuto, liquidandole come da
dispositivo.
P.Q.M.
La Corte de Conti, Sezione Giurisdizionale per la
Regione Campania,
definitivamente pronunciando:
1. RESPINGE l'eccezione di prescrizione;
2. RIGETTA l'istanza di sospensione del giudizio ai
sensi dell'art. 295 c.p.c.;
3. CONDANNA Antonio ESTI al pagamento di € 200.000,
oltre interessi legali e spese di giustizia, queste ultime liquidate in €. 343,28**
Così deciso in Napoli, nella camera di consiglio
del giorno 30 aprile 2009.
IL I REF. ESTENSORE IL
PRESIDENTE
(Rossella
Cassaneti) (Enrico Gustapane)