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Nota a :
Cassazione penale , 27/6/2006, n. 32009

Il verbale di Perry Mason: atto pubblico

D&G 2006, 37, 0040X1090733

Giuseppe Santalucia
Magistrato

Avvocati e indagini: materiale probatorio, se la selezione è negata
Il difensore che verbalizza le informazioni raccolte nell'esercizio delle attività di investigazione compie un atto pubblico, sì che non può che incorrere nella responsabilità penale ex articolo 479 Cp nel caso in cui verbalizzi il falso o verbalizzi in modo infedele. È quanto affermato - con nettezza sin dall'esordio della motivazione - dalle Sezioni unite penali con la sentenza 32009/06 qui pubblicata a p. 44.
IL DELITTO DI FALSO IDEOLOGICO DEL DIFENSORE NELL'ESERCIZIO DEL POTERE DI INVESTIGAZIONE
Data quest'asserzione, il discorso si snoda per un buon tratto con coerenza. Il difensore può acquisire notizie da una persona informata sui fatti che sono oggetto del processo anche mediante un esame diretto, di cui è chiamato a formare il verbale che può essere utilizzato sia per le contestazioni dibattimentali ex articolo 500 Cpp ed è acquisibile come prova mediante lettura secondo il disposto degli articoli 512 e 513 Cpp.
Il difensore, nell'esercizio dell'attività investigativa che produce un risultato equiparato quanto alle potenzialità di utilizzazione ai verbali degli atti compiuti dal Pm, è tenuto all'obbligo di fedeltà nella verbalizzazione ed all'obbligo di documentazione delle dichiarazioni in forma integrale, come peraltro si desume dalle regole poste dal Codice deontologico approvato dal Consiglio nazionale forense e dalle regole di comportamento investigativo approvare dall'Unione delle Camere penali. Tanto trova conferma nei principi ispiratori della legge sulle investigazioni difensive, che predispone un apparato di regole dirette a garantire la genuinità delle dichiarazioni rese al difensore investigante, e tra queste in particolare nelle disposizioni che incriminano la condotta della persona informata sui fatti che riferisca al difensore il falso, e che prescrivono la sospensione del verbale in corso di esame allorché emergano dalle dichiarazioni stesse indizi di reità a carico del dichiarante, e che infine prevedono l'inutilizzabilità contro il dichiarante medesimo delle dichiarazioni di tal fatta rese in precedenza.
Una prima conclusione è allora che la libertà di esercizio del mandato difensivo non può giustificare la scelta di documentare in modo infedele o incompleto le dichiarazioni raccolte dalla persona informata sui fatti.
IL NO DELLE SEZIONI UNITE SULL'EQUIPARAZIONE DELLE FIGURE DI DIFENSORE E PM
Ciò significa che il difensore investigante è posto sullo stesso piano del pubblico ministero? No, affermano le Sezioni unite, e la rilevante differenza tra le due figure si coglie nella direzione finalistica delle attività investigative: mentre il Pm svolge "le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale" - articolo 326 Cpp - ed è tenuto a svolgere "altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini" - articolo 358 Cpp - non potendo il suo impegno inquirente limitarsi alla raccolta soltanto degli elementi che sostengono l'ipotesi d'accusa, il difensore ha la facoltà "di svolgere investigazioni per ricercare ed individuare elementi di prova a favore del proprio assistito...", e dunque ben può ignorare gli elementi che non siano funzionali alle ragioni difensive di contrasto all'ipotesi di accusa che parallelamente si va formando.
Le Sezioni unite non dicono però come in concreto possa esplicarsi questa capacità di selezione del materiale probatorio utile alla tesi difensiva, una volta che il difensore decida di raccogliere informazioni, se non gli è riconosciuto durante l'esame della persona informata il potere di tralasciare dal racconto quelle parti che ritiene non siano utili o che addirittura ritiene siano dannose. La selezione in corso di esame delle dichiarazioni da verbalizzare è infatti qualificata come manipolazione informativa, per ciò stesso indebita e quindi vietata.
Si può però ritenere, sulla falsariga di una riflessione dottrinale (F. Ruggiero in Cass. pen., 2004, p. 69 e ss., che vede nel colloquio uno strumento nella disponibilità del difensore per operare uno screening preliminare su ciò che è o non è favorevole al proprio assistito, per poi decidere se ricevere o non ricevere dichiarazioni o informazioni), che questo potere di selezione debba essere esercitato prima della decisione sul se procedere o meno all'esame con verbalizzazione, sfruttando la facoltà di conferire con la persona informata sui atti senza obbligo di documentazione, secondo il disposto dell'articolo 391bis Cpp. Il colloquio senza documentazione non è soltanto uno degli strumenti informativi accordati al difensore, da utilizzarsi in alternativa alla richiesta di una dichiarazione scritta o all'esame con documentazione; è soprattutto un atto prodromico all'esame, diretto a verificare se sia utile esaminare la persona informata scandagliandone le conoscenze, per poi evitare di essere costretti a consacrare in verbale conoscenze sfavorevoli al proprio assistito.
Benché utile, quest'accorgimento può non essere sufficiente. Non può escludersi che le informazioni raccolte in verbale ad un certo stadio dello sviluppo inquirente dell'ipotesi d'accusa possano rivelarsi nel prosieguo meno utili di quanto il difensore potesse valutare. E su questo versante si coglie un'altra differenza tra i doveri del difensore investigante ed i doveri del pubblico ministero, pur essa fondata sulla diversità di direzione finalistica delle rispettive potestà investigative. Le Sezioni unite affermano chiaramente infatti che il difensore, formato il verbale di informazioni, conserva la facoltà di non utilizzare processualmente l'atto.
SONO UGUALI, INVECE, LE FORME DELL'ATTO COMPIUTO DALLE DUE FIGURE
Ma le differenze si arrestano qui, perché quanto alle forme l'atto compiuto dal difensore non è difforme da quello del Pm. L'articolo 391ter, comma 3, Cpp rinvia per la documentazione delle informazioni raccolte dal difensore alle disposizioni del titolo III del libro secondo del codice di rito, in quanto applicabili. E così il difensore è tenuto a verbalizzare in forma integrale la raccolta di informazioni, o, se ricorre alla verbalizzazione in forma riassuntiva, ad effettuare anche la riproduzione fonografica, secondo il disposto dell'articolo 134 Cpp, e deve descrivere nel verbale "quanto è avvenuto in sua presenza, nonché le dichiarazioni ricevute...".
Il rispetto di queste forme, nella prospettiva accolta dalle Sezioni unite, fa del verbale di informazioni del difensore un atto pubblico, ai sensi della previsione incriminatrice dell'articolo 479 Cp, e del difensore al momento in cui raccoglie e documenta le informazioni un pubblico ufficiale.
UNA DISCUTIBILE DECISIONE DEI SUPREMI GIUDICI
La conclusione circa l'assunzione della qualità di pubblico ufficiale non convince, almeno per il percorso motivazionale adottato. Le Sezioni unite richiamano proprie precedenti decisioni circa la concezione oggettiva della nozione di pubblica funzione di cui all'articolo 357 Cp, ricordando che essa prescinde dall'esistenza di un rapporto di dipendenza del soggetto con lo Stato o altro ente pubblico. Queste decisioni hanno però avuto ad oggetto l'individuazione della figura di pubblico ufficiale all'interno della pubblica funzione amministrativa, che è una delle pubbliche funzioni, accanto a quella giudiziaria ed a quella legislativa, il cui esercizio compete ai pubblici ufficiali. Per quanto sia importante dimostrare che il difensore, certo non legato da un rapporto di dipendenza con l'amministrazione giudiziaria, può non di meno acquisire la qualifica di pubblico ufficiale, è del pari se non più rilevante la questione della riconducibilità delle attività di investigazione difensiva nell'ambito della pubblica funzione giudiziaria, su cui le Sezioni unite nulla dicono, dando evidentemente per scontato che le attività di investigazione difensiva siano esplicazione di una funzione giudiziaria.
I precedenti giurisprudenziali in tema, peraltro, non aiutano a comprendere le ragioni della scelta interpretativa.
È pur vero che, sulla falsariga di quella giurisprudenza (ad es., sezione prima, 6724/03, ric. Pm in proc. Chianese) che riconosce al testimone la qualità di pubblico ufficiale sin dal momento della sua citazione a giudizio in quanto partecipe alla formazione della volontà del giudice, si potrebbe estendere questa connotazione partecipativa al difensore che raccoglie le informazioni dalla persona a conoscenza dei fatti, preparando l'assunzione di una futura testimonianza. E si potrebbe quindi far leva sui principi enunciati da sezione sesta, 5575/98, ric. Bellifemine, secondo cui la qualità di pubblico ufficiale spetta non solo a colui il quale concorre a formare la volontà dello Stato o degli altri enti pubblici, ma anche a quanti svolgono attività di carattere accessorio o sussidiario ai fini istituzionali degli enti pubblici, attuando così una forma di partecipazione, sia pure in misura ridotta, alla formazione della volontà della Pa.
Sarebbe però necessario farsi carico di spiegare sistematicamente la compatibilità di una costruzione delle attività di investigazione difensiva in termini di partecipazione collaborativa alla funzione giudiziaria con l'affermazione della libertà nell'esercizio del mandato difensivo, qualificata finalisticamente soltanto dalla tutela degli interessi processuali dell'assistito. E si dovrebbe esplicitare se vi è continuità o rottura con quella giurisprudenza, sezione sesta, 2675/95, ric. Tauzilli, che ha negato la qualifica di pubblici ufficiali ai consulenti dell'imputato per la ragione che perseguono interessi di parte privata, pur se è indubbio che anche i consulenti dell'imputato non devono trovarsi in situazione di incompatibilità - v. in tal senso articolo 225 comma 3 Cpp - a garanzia dell'affidabilità per neutralità rispetto all'oggetto della controversia, nell'esercizio dei loro compiti processuali. Le Sezioni unite, in buona sostanza, non danno risposta ai rilievi dottrinali (A. Manna in Dir. pen. e proc., 2003, 1276 e ss.), che tra l'altro hanno messo in evidenza come manchi nell'esercizio dell'attività investigativa il carattere della doverosità, che prima della funzione giudiziaria connota la funzione pubblica tout court, e come questa mancanza spieghi bene le ragioni delle scelte legislative in punto di assenza per il testimone dell'obbligo di presentarsi e di rispondere, assenza di un potere autonomo del difensore di ispezionare cose e luoghi, assenza di un obbligo per la pubblica amministrazione di consegnare gli atti ed i documenti ad essa richiesti dal difensore, pena altrimenti l'integrazione della fattispecie penali di rifiuto di atti d'ufficio.
Ma il punto di maggiore crisi del ragionamento delle Sezioni unite si rivela nel passaggio motivazionale che, nel tentativo di coniugare l'affermazione circa la possibilità per il difensore di non utilizzare il verbale delle informazioni con il riconoscimento allo stesso dei caratteri dell'atto pubblico, àncora la commissione del delitto di falso ideologico "al momento in cui l'atto acquista giuridica rilevanza ai sensi degli articoli 391octies e seguenti del codice di rito" e cioè proprio alla determinazione difensiva di utilizzazione processuale dell'atto investigativo. Il delitto di falso ideologico non viene in essere al momento in cui il difensore investigante esercita la pubblica funzione giudiziaria, e cioè nel momento in cui verbalizza in modo incompleto o infedele le dichiarazioni rese dalla persona informata sui fatti, ma nel momento, successivo, in cui decide di utilizzare l'atto falso nel processo, allorché è però fuori di dubbio che svolge una funzione che all'interno dell'ordinamento penale lo qualifica come esercente un servizio di pubblica necessità.
In questi termini l'applicazione della fattispecie di cui all'articolo 479 Cp non assicura tipicità alla condotta. È appena il caso di ricordare che l'articolo 479 Cp punisce la condotta del pubblico ufficiale che "attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui non rese, ovvero omette o altera dichiarazioni da lui ricevute, o comunque attesta falsamente fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità", e non prende in considerazione il memento in cui l'atto così formato è utilizzato secondo la sua fisiologica destinazione.
Le Sezioni unite si trovano di fronte ad un difficile compito. Il delitto di falso ideologico ha natura istantanea, e questa natura non possono che ribadire. D'altro canto, il difensore ha libertà di non utilizzare l'atto investigativo, e non si può certo ipotizzare un suo dovere di depositare nel processo l'intera documentazione relativa alle indagini espletate, secondo quanto previsto per il Pm dall'articolo 416 Cpp. Ciò significa però che il difensore ha la libertà di non dare corso a quella forma di collaborazione partecipativa alla funzione giudiziaria, che è il nucleo di contenuto della qualità di pubblico ufficiale, parimenti necessaria all'integrazione del delitto di cui all'articolo 479 Cp.
E così, o si mette in crisi il pur fragile percorso di costruzione della qualità di pubblico ufficiale in capo al difensore investigante, che ha bisogno di un collegamento diretto, seppure in termini di accessorietà, con l'esplicazione della funzione giudiziaria del giudice del procedimento, o si forza la fattispecie per quanto concerne il momento perfezionativo, introducendo il collegamento con l'utilizzazione dell'atto falso. Quest'ultima è la soluzione che le Sezioni unite hanno preferito e giustificato con l'affermazione che non può aversi falsificazione ideologica fino a quando l'atto rimane nell'ambito della facoltà di disposizione dell'agente.
Il concetto non è per nulla chiaro. In che senso il difensore investigante, sino al momento dell'utilizzazione processuale, conserva una facoltà di disposizione sull'atto: può forse modificarlo per correggerne le falsità e le incompletezze? Può distruggerlo per impedire la distorsione dell'attività giudiziaria, che si avrebbe se decidesse di utilizzarlo nel procedimento? Su quest'ultimo punto le Sezioni unite negano un potere di distruzione dell'atto, smentendo le affermazioni del giudice di primo grado, che già erano state rifiutate dal giudice d'appello. Ma, il difensore che intendesse distruggere l'atto falso incorrerebbe in responsabilità per il reato di distruzione di atto pubblico, ai sensi della previsione di cui all'articolo 490 Cp? È questo il senso del divieto che le Sezioni unite pongono alla distruzione del verbale? Rispondendo affermativamente dovrebbe riconoscersi che il verbale, ancor prima della sua utilizzazione processuale, è atto pubblico in senso pieno, ma una tale conclusione sarebbe in forte contraddizione con quel che invece i Supremi giudici dicono chiaramente e cioè che la rilevanza della condotta di falso è strettamente legata all'utilizzazione processuale del verbale. Sul primo quesito invece le Sezioni unite non si esprimono, ma pare di poter dire che una modifica dell'atto non può annoverarsi nell'ambito delle legittime facoltà difensive, perché l'atto si perfeziona in modo definitivo al momento in cui è redatto ed è sottoscritto, previa lettura, dal pubblico ufficiale redigente, in questo caso il difensore investigante, e dalle persone intervenute secondo il modello normativo di cui all'articolo 137 Cpp, applicabile perché pienamente compatibile. Se è fatto divieto di distruggere l'atto, per coerenza non può che affermarsi il divieto di modificazioni postume, pur se anche tale ultimo divieto ha come inevitabile premessa la qualificazione del falso verbale come atto pubblico ancor prima della sua utilizzazione nel processo. Le Sezioni unite si limitano a richiamare sezione quinta 834/93, ric. Codano, secondo cui "quando l'autore della falsità è lo stesso soggetto che deve formare l'atto, non vi può essere falsificazione ideologica o alterazione materiale punibile fino a quando l'atto rimane nell'ambito della facoltà di disposizione dell'agente, il quale, come autore dell'atto, può apportare ad esso tutte quelle modificazioni o aggiunte che ritiene possibili o, addirittura, può non far venire alla luce l'atto lasciandolo nello stadio di mero proposito".
Il principio di diritto di questa pronuncia è però all'evidenza estraneo alla materia ora in esame. La sentenza Codano fa riferimento ai casi in cui l'atto può essere modificato perché nell'esclusiva disponibilità del soggetto che lo forma. Il riferimento è in concreto al modulo in bianco recante la sola firma del soggetto che autocertifica la prestazione del lavoro straordinario ancora da eseguire; se questo foglio rimane nella disponibilità del soggetto che lo deve sottoscrivere e non affiora nel mondo esteriore per conseguire gli effetti di cui sarebbe capace, il reato di falso non viene ad esistenza per la mancata realizzazione dell'evento. La soglia del momento consumativo è infatti varcata solo quando il foglio, dopo la sottoscrizione, entra nella disponibilità della pubblica amministrazione di cui il soggetto che lo ha formato è dipendente. Ben altra è la situazione che si ha al momento in cui il difensore investigante forma il verbale di dichiarazioni in modo falso per incompletezze o infedeltà. Quel verbale, una volta formato con le modalità di cui agli articoli 134 e ss. Cpp, non è più nella disponibilità del difensore, che non può apportare alcuna modificazione o aggiunta dopo che è stato sottoscritto da lui stesso e dalla persona che le dichiarazioni ha reso, oltre che dalle persone che sono comunque intervenute al compimento dell'atto investigativo. Si faccia il caso che il difensore, formato l'atto, decida di non utilizzarlo, e che solo a distanza di tempo muti orientamento e lo produca in giudizio. Ha forse necessità di compiere un'attività prodromica di completamento dell'atto? La risposta è ovviamente negativa, perché l'atto è completo e perfetto al momento in cui il verbale è redatto e quindi sottoscritto, e le decisioni circa la sua utilizzazione sono estranee al procedimento di formazione, al cui esito esso è già in grado di esplicare gli effetti che gli sono propri. In questa direzione si è peraltro espressa sezione quinta, 4132/97, ric. Pg in proc. Rebuzzini, che ha affermato che "il reato di falso ideologico postula che il documento, attestante l'immutatio veri, sia perfetto nel suo tenore letterale, giuridico e nella sua funzione probatoria. Un atto incompleto, firmato in bianco o non contenente tutte le indicazioni richieste per produrre effetti giuridici, necessarie ai fini del significato dell'atto e del suo valore probatorio, è privo di contenuto, del cosiddetto tenore di documento e non è suscettibile di apprezzamento penale per la non concludente indeterminatezza delle manifestazioni di verità". Il reato è istantaneo e di pericolo e non ammette un iter criminis, tanto che non si configura il tentativo neppure nella consegna dell'atto da parte del pubblico ufficiale al privato, in quanto la possibilità di agevole completamento è un'evenienza di consumazione che non serve a rendere penalmente rilevanti,sub specie di falso, gli atti preparatori anteriori. Sicché delle due l'una: o l'atto è formato in tutti i suoi elementi, ed allora il reato di falso ideologico è consumato, o l'atto è incompleto ed allora di reato di falso ideologico non può parlarsi nemmeno nella forma del tentativo. Ed ancora, per rendere più chiara l'irrilevanza delle evenienze successive alla formazione dell'atto, è utile richiamare sezione quinta, 38083/05, ric. Strada, che ha riconosciuto natura di atto pubblico al verbale di attestazione dello svolgimento della seduta di una organo della pubblica amministrazione, ritenendo del tutto irrilevante, ai fini dell'integrazione del reato di falso ideologico, che il contenuto del verbale non fosse destinato ad essere riprodotto in atti diversi o che l'organo amministrativo, di cui si era attestata falsamente la riunione, fosse privo di poteri decisori. Il reato di falso, per dirla ancor meglio con sezione quinta, 7531/97, ric. Maimone, tutela la pubblica fede che, in ogni caso, si può riporre nel documento e l'uso dell'atto non è necessario per la perfezione del reato, mentre può integrare la condotta di un reato ulteriore.
CONCLUSIONI
Le Sezioni unite non danno una risposta sufficientemente plausibile ai dubbi che sorgono alla luce della pregressa giurisprudenza circa gli elementi di perfezione del fatto tipico di falso ideologico, e finiscono con l'introdurre, riferendo il momento consumativo all'utilizzazione nel procedimento, una sorta di condizione di punibilità. Si faccia l'esempio del difensore che dopo aver svolto investigazioni difensive, ed avere in particolare formato un falso verbale di dichiarazioni, decida di non utilizzarlo, ma sia poi sostituito con altro difensore che, ritenendo al contrario utile l'atto, e magari ignorandone la falsità, lo produca in giudizio utilizzandolo secondo le previsioni della legge processuale. Del delitto di falso ideologico chi dovrà rispondere secondo le indicazioni ora fornite dalla decisione delle Sezioni unite? Sembra che il responsabile non possa che individuarsi nel difensore che ha formato l'atto falso, seppure poi ha deciso di non utilizzarlo; rispetto a quella condotta di falso ancora non rilevante penalmente, la successiva utilizzazione processuale dell'atto, a cui l'autore del falso rimane estraneo, si configura appunto come condizione obiettiva di punibilità, a meno di non voler ritenere che in questa ipotesi nessuno possa essere chiamato a rispondere penalmente del reato di falso. È evidente allora l'inconciliabilità con il principio di necessaria tipicità del fatto criminoso degli approdi a cui si è diretti sviluppando le argomentazioni delle Sezioni unite, e ciò per un vizio d'origine annidato nella scelta, pur necessitata e forse meritevole di maggiore attenzione, di dare rilevanza al momento dell'utilizzazione processuale.